La presa di Porta Pia, centocinquanta anni fa, segnò la fine del processo di unificazione nazionale che, iniziatosi e sviluppatosi nei primi decenni del secolo decimonono non solamente con le guerre di indipendenza, ma anche e sopratutto con i moti liberali e democratici, che erano esplosi nei singoli stati italiani, si concludeva clamorosamente con la caduta del potere temporale dei Papi.
Con Roma capitale, d’altro canto, finì l’assalto alle volte sotterraneo ed occulto, altre volte palese e diretto, delle forze giacobine ed atee contro le ultime roccaforti dei principi tradizionali di gerarchia, ordine, autorità, onore e fedeltà; e simultaneamente iniziò prima il dilagare e l’affermarsi incontrastato delle dottrine del terzo stato, il costituzionalismo, il liberalismo e la democrazia, poi l’attacco frontale di quelle del quarto stato, il socialismo ed il comunismo, ed oggi del laicismo libertario e del relativismo religioso.
È inutile ripetere, ancora una volta, in questa sede, che non si pensa neppure lontanamente di mettere in discussione l’unità d’Italia in quanto tale (fatto, invero, necessario, indispensabile ed improrogabile), quanto piuttosto le basi culturali ed ideali sulle quali tale unità fu realizzata. Un’unità, che è bene ripeterlo, era voluta da tutti, anche dai sovrani borbonici, anche dai controrivoluzionari come Salaro della Margherita, anche dai pensatori tradizionalisti come Joseph Maistre.
I sostanza, quello che si temeva, da parte dei sostenitori “del trono e dell’altare”, era che l’unità si facesse non per l’unità fine a se stessa, ma per affermare quei principi egualitaristici e sovversivi propri della rivoluzione francese.
La verità è che da quel momento – 150 anni fa – per la prima volta nel corso degli ultimi secoli si apriva una crisi tra lo Stato italiano e la Chiesa che non solo avrebbe sottratto allo Stato una massa di energie cattoliche, ma avrebbe creato una questione che si sarebbe riproposta ad ogni governo italiano come un’insormontabile “impasse” che sarebbe stata superata soltanto dopo circa 60 anni, nel 1929, con i patti Lateranensi, che chiusero la questione romana definitivamente e dignitosamente tra lo Stato e la Chiesa.
La Chiesa vede soddisfatte le sue ragioni di principio e si accorge che lo Stato ha superato quasi del tutto le sue pregiudiziali anticlericali e filomassoniche, ponendosi sullo stesso piano della Chiesa per quanto riguarda il rifiuto delle tradizioni giacobine.
Lo Stato italiano, pur non rifiutando del tutto la tradizione liberale (e questo secondo noi fu una delle insufficienze del regime), che aveva portato all’unità ed alla presa di Roma, respinge i miti della rivoluzione francese, ritenendo che l’Italia potesse avere un “ubi consistam” a cui riferirsi, delle tradizioni a cui ancorarsi, delle vestigia di un passato seppur lontano, che solo a Roma si potevano ritrovare; e suggerendo l’idea che perché Roma assolvesse con dignità ai suoi compiti di grandezza religiosa ed anche politica era necessario che avesse come interland non un piccolo Stato, ma una grande nazione, con un grande popolo ed un grande stato cosi come i tempi richiedevano.
Ambedue le istituzioni ormai si reggevano più o meno su analoghi principi culturali ed ideologici, salvo poche eccezioni; i principi egualitaristici e democratici che nel risorgimento li aveva contrapposto, furono soppiantati dai principi di autorità e gerarchia.
Con la conclusione dell’ultima guerra mondiale, invece, riemerse da parte dello Stato italiano, che aveva costituzionalizzato gli accordi del Laterano, l’interpretazione democratica del risorgimento e della Presa di Roma; e si parlò di secondo risorgimento a proposito della resistenza (non con tutti i torti) e si dette la prevalenza non più al momento politico unificatorio della presa di Roma, ma al momento ideologico egalitarista ed antitradizionale.
La stessa Chiesa inizio a rivedere le sue posizioni, a fare l’autocritica, ad adeguarsi al mondo che la circondava, mettendo in ombra i principi per i quali si era battuta nei secoli precedenti.
In effetti si è verificato nel corso dell’ultimo mezzo secolo del Novecento ed in questi primi venti anni del terzo millennio, dal punto di vista delle idee, una vera e propria frana in senso sovversivo.
Ecco perché la celebrazione di questi 150 anni della presa di Porta Pia vede uniti ed in accordo i rappresentanti dell’una e dell’altra parte; trascurando quello che in realtà l’Italia e Roma avrebbero potuto e dovuto rappresentare per gli italiani e per i cattolici.
Tutto questo perché ci troviamo di fronte ad uno stato che trova la sua legittimità non dall’alto e che intende essere solamente un’amministrazione di beni e servizi e quindi di interessi materialistici, giammai rappresentare un’idea superiore e trascendente.
Tutto questo perché ci troviamo di fronte ad una parte della Chiesa, che intende essere sempre meno cattolica e romana e sempre più democratica e popolare; tanto da diventare, in questo sì, sempre più “conciliante” e “sensibile alle esigenze del mondo e della società”.
Per tutte queste ragioni abbiamo sempre giudicato il processo unificatorio italiano, che prima o poi doveva pur avvenire, come una fase dell’immane, secolare scontro di due concezioni del mondo: quella tradizionale e quella sovversiva.
Sarebbe bene, perciò, prima di tuffarsi in indiscriminate celebrazioni che si operasse una distinzione e si giudicassero quegli avvenimenti per quel che in realtà sono stati e per quello che hanno rappresentato o rappresentano per la storia della nostra nazione e sopratutto per la storia della battaglia delle idee che da secoli si sta combattendo tra le forze del caos (disordine) e quelle del cosmos (ordine).
Si consideri, quindi, senz’altro positiva l’unità d’Italia e con essa la presa di Roma nella misura in cui questi avvenimenti vollero significare e significano per noi il tentativo di unificare più genti aventi la stessa lingua, la stessa religione, le stesse tradizioni in un unico stato e quindi: in un’unità di forze e di destini che abbiano un disegno storico da realizzare, un idea, come si diceva una volta, imperiale da affermare.
Si consideri, però, senz’altro negativa tutta la vicenda, se si esamina dal punto di vista “delle idee che muovono il mondo”; ed in questo caso non possiamo esimerci dal constatare che coloro che vollero l’unità non erano altro che agenti, spesso inconsapevoli, del movimento antitradizionale, operante sul piano internazionale.
L’unitarietà e la sintonia che stanno emergendo anche dalle celebrazioni dei 150 anni di Porta Pia non significano dunque che si sia ripristinato l’antico rapporto tra Stato e Chiesa e tanto meno che lo Stato abbia rinunciato alle sue prerogative giacobineggianti, sposando i principi della Chiesa di sempre.
In questa occasione sarebbe stato bello, ad esempio, organizzare almeno una messa per ricordare tutti indistintamente i protagonisti di quel periodo storico; i bersaglieri caduti per prendere Roma ed i soldati pontifici caduti per difenderla; i martiri caduti per l’unità d’Italia in buona fede ed i legittimisti caduti in nome del loro re e della loro religione; l’intellettuale liberale che si immolò volontario nelle guerre di indipendenza e per il contadino borbonico e i giovani alfieri che, seguendo il loro re a Gaeta, morirono senza alcun riconoscimento.
Solo in questo modo si eviterebbero le speculazioni di parte e si sarebbe potuto inserire tutta la vicenda dell’unità d’Italia nel solco di una tradizione che affonda le sue radici nella storia d’Europa e che ha i suoi fondamenti nei principi di onore e fedeltà. Una tradizione che da questi avvenimenti sarebbe stata rinvigorita ed attualizzata, perché fecondata dal sangue di tutti gli eroi ed i martiri caduti sulle sue barricate.
Vincitori e vinti insieme.