Il nodo politico è stato sciolto, per i tecnicismi c’è ancora tempo. Dalla riunione di Palazzo Chigi sul 5G emerge una linea netta: i fornitori cinesi devono essere tenuti fuori dalla rete core. Non con un bando formale, ma con un irrigidimento delle maglie di sicurezza nei confronti degli operatori.
Questo il cuore del vertice che ieri il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha convocato con i capi delegazione Dario Franceschini, Alfonso Bonafede, Roberto Speranza e Teresa Bellanova insieme ai ministri Luigi Di Maio, Stefano Patuanelli, Lorenzo Guerini, Enzo Amendola e il sottosegretario Riccardo Fraccaro. Un faccia a faccia per dettare la linea sul dossier 5G e preparare l’incontro, martedì prossimo, con il segretario di Stato americano Mike Pompeo. Che scioglierà le riserve sul compromesso raggiunto dalla maggioranza, e farà capire se lo sforzo del governo è sufficiente.
Una velina di Palazzo Chigi in serata fa un bilancio a dir poco prudente. Se la maggioranza dà una valutazione positiva “dell’assetto normativo di cui l’Italia si è dotata negli ultimi tempi”, rimane “la piena consapevolezza dei potenziali rischi connessi alle nuove tecnologie e della necessità di adottare sempre nuove iniziative che rafforzino il livello di protezione, avendo come primario criterio di riferimento la tutela della sicurezza nazionale”. Di qui l’impegno a “perseguire una strategia di indipendenza tecnologica nell’ambito dell’Unione europea”.
Ancora una volta, il richiamo all’Ue e al “toolbox” di linee guida stilate dalla Commissione per mettere in sicurezza il 5G, cui l’Italia dovrà dare risposte concrete entro il 1 ottobre. Il rimando a Bruxelles può sembrare un tentativo di buttare la palla sugli spalti. In verità la scelta di valorizzare una soluzione europea rientra in un “lodo Amendola”: da mesi il ministro lavora con i partner Ue per studiare una soluzione di policy e di mercato alternativa all’offerta cinese.
Dai partecipanti alla riunione filtra ottimismo perché, se tanto resta da fare sul piano tecnico, con il Perimetro di sicurezza nazionale cibernetica e i Cvcn (centri di valutazione e certificazione nazionale) ancora da costruire, l’impasse politico sembra davvero superato.
Dirige l’orchestra il Pd, che con il tandem Amendola-Guerini in prima linea chiede da mesi una svolta filoatlantica nella partita per il 5G. La novità è che, se rimane qualche perplessità, non si registra più da parte dei Cinque Stelle e in particolare di Patuanelli un’aperta ostilità alla stretta del governo sui fornitori cinesi, Huawei in testa.
Escludere le aziende di Pechino non è all’ordine del giorno. I cinesi sono già nella rete 4G italiana, hanno firmato contratti per la sperimentazione del 5G con diversi operatori, e una messa al bando darebbe vita a un’infinita battaglia legale del governo, senza certezza di vittoria. Resta una doppia morsa: da una parte il perimetro cyber, con il lavoro del Dis per accelerare, dall’altra le nuove prescrizioni del comitato golden power di Palazzo Chigi per gli operatori, che rendono assai più oneroso il business con i cinesi, fra controlli settimanali dell’equipaggiamento tech e consegna del codice sorgente.
Tanto basta, per ora, a entrambi i partner di governo. Resta ora da vedere se Pompeo sarà dello stesso avviso. Il messaggio agli operatori, intanto, è arrivato chiarissimo: bisogna seguire l’esempio di Tim, l’ex monopolista guidato da Luigi Gubitosi che a giugno ha scelto di non invitare alle gare per il 5G in Italia e Brasile Huawei.
Non è un caso se, fra i dem più irritati dalle resistenze grilline alla svolta filo-Usa, c’è in queste ore chi parla di “passi da gigante”. Certo, la strada è ancora lunga. Ci sono altre insidie cui il governo dovrebbe mettere mano, come il codice appalti e la procedura negoziata che in tempo di emergenza, con il pretesto di “fare in fretta”, ha sostituito le gare per il public procurement. E su settori come la Sanità l’appetito delle aziende tech cinesi in Italia è cresciuto in questi mesi. “Ad esempio, la regione Lazio va a gara con il Cup, che gestisce i dati sanitari di milioni di italiani – spiega un dem – con il codice appalti così com’è Zingaretti non ha strumenti per tenere fuori i cinesi dai software, perché se ci provasse interverrebbe il Tar. E non sono costretti a presentarsi con il volto di Huawei, possono acquisire il controllo, in forma occulta o palese, di un’azienda italiana e veicolare loro prodotti a prezzi iper-competitivi”.
Resta poi il nodo della delega del premier sull’intelligence. Non sono in pochi al Nazareno a pensare che Conte dovrebbe cederla a un’autorità che possa seguire più da vicino il dossier 5G. Insomma, la partita politica intorno alla banda ultralarga è ancora al calcio d’inizio.