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Afghanistan, ecco vincitori e vinti dei negoziati. L’analisi di Bertolotti

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Il 14 settembre segna l’avvio dei negoziati tra i talebani e il governo afghano, dopo quasi vent’anni di conflitti. La cerimonia ufficiale di sabato scorso, celebrata alla presenza del segretario di Stato americano Mike Pompeo, ha posto il governo di Kabul di fronte a quelli che per molto tempo sono stati prima “terroristi”, poi “insorti” e infine “interlocutori”: i talebani, eredi del movimento islamista che fu portato alla guida dell’Afghanistan nel 1996 dal leader storico, il mullah Mohammad Omar, morto nel 2013. Oggi il movimento è guidato proprio dal figlio dello storico capo dei talebani, il mullah Mohammad Yakoub, in sostituzione di una leadership colpita gravemente dal COVID-19.

La stampa internazionale ha dato molta enfasi all’evento soffermandosi però sull’aspetto meno veritiero che lo caratterizza: il “dialogo di pace”; mentre è stata posta in secondo piano la portata dell’evento stesso che va a concentrarsi sul riconoscimento formale di quanto conquistato dai talebani in quasi due decenni di guerra. Un riconoscimento, di fatto, senza condizioni e in cui i talebani ottengono molto senza concedere nulla. Di pace non si parla a Doha e i talebani – guidati a Doha dal mullah Abdul Ghani Baradar – al di là delle parole, lo hanno dimostrato con le decine di attacchi contro le forze di sicurezza afghane portati a compimento nel preciso istante in cui aveva inizio la cerimonia di apertura del dialogo negoziale.

Gli Stati Uniti sono quelli che hanno più a cuore la conclusione dell’accordo, qualunque esso sia. In tale quadro si impone la razionale opportunità cercata (e trovata) dal presidente Donald Trump in un’ottica elettorale: il ritiro dall’Afghanistan, avviato grazie al dialogo di Doha, è la promessa mantenuta agli elettori che gli chiedono un disimpegno dalle guerre lontane. Non è una novità per Washington anteporre interessi di politica interna ed elettorali a quelli delle relazioni internazionali o agli equilibri della geopolitica. Prima di lui, l’ex presidente Barack Obama, che ridefinì la strategia per la guerra afghana imponendo l’aumento delle truppe impegnate contro i talebani, ma che commise l’errore imperdonabile di annunciare nello stesso momento la data del loro ritiro in corrispondenza del passaggio di consegne agli afghani, dando così la possibilità ai talebani (e ad al-Qa’ida) di riorganizzarsi, trovare rifugio in Pakistan e tornare in Afghanistan solo dopo il disimpegno operativo statunitense e della Nato.

Ma Trump, a differenza di Obama ha perseguito la propria di strategia, chiara e definita: disimpegno totale e ritiro delle truppe (anche se non tutte, ma questo viene sottaciuto), come ipoteca della possibile riconferma come presidente degli Stati Uniti. E l’incontro di Doha porta anche al cambio della narrativa sulla guerra in Afghanistan, archiviando una volta per tutte la “guerra al terrore” di George W. Bush e il surge risolutivo insieme alla dottrina “contro-insurrezionale” approvati da Barak Obama.

Con i dialoghi di Doha si costruisce un equilibrio – certamente precario ma senza alternativa – in cui i due principali attori ottengono un risultato soddisfacente: un win-win in cui, da un lato, ci sono i talebani che guardano con favore al ritiro statunitense e, dall’altra, Washington che di fatto vuole ritirarsi da una guerra persa che, se non osteggiata dall’opinione pubblica, è certamente dimenticata e sgradita. Il terzo attore (non protagonista) è il governo afghano, che pagherà il conto di una partita giocata a sue spese.

Un gioco delle parti in cui è il movimento talebano a distribuire le carte, tenendo per sé stesso quelle vincenti. Un tavolo negoziale che fin da subito è stato gestito dai talebani che hanno imposto i tempi – è dal 2007 che i tentativi di dialogo sono in corso, con due accelerazioni nel 2011 e nel 2018 –, hanno dettato le precondizioni – il disimpegno militare straniero e il rilascio dei 5.000 talebani detenuti dal governo afghano, da loro definito e considerato “fantoccio” – ed esplicitato i loro obiettivi imprescindibili – condivisione del potere, nessuna interferenza nel commercio degli oppiacei (di cui non si parla) e riorganizzazione dello Stato, che sarà sempre meno “repubblica” e sempre più emirato islamico.

A Doha prendiamo atto di un Afghanistan su cui né la Comunità internazionale né il governo afghano hanno più il controllo. I talebani hanno dimostrato con il tempo di essere in grado di muovere ed operare con efficacia, occupando anche importanti obiettivi: Kunduz, la quinta città per estensione e capitale provinciale, occupata due volte, Faryab, tenuta sotto assedio, e la stessa Kabul, le cui vie di accesso sono permanentemente presidiate dai talebani. Talebani che, solamente ad agosto, hanno conquistato il distretto di Murghab nella provincia di Ghor. Ai più il nome di questa località dirà poco, ma è bene ricordare che per molto tempo l’area è stata considerata il fiore all’occhiello della missione italiana in Afghanistan e su cui si sono concentrati i principali sforzi costati molto in termini di risorse economiche e in termini di vite umane. Oggi l’area è perduta – lo era già da molto tempo in realtà – e con essa le ambizioni tradotte nella narrativa del sostegno al governo afghano. E perdute sono molte altre aree del paese: almeno il 40% del territorio è controllato dai talebani e dai gruppi a loro affiliati o in competizione con loro.

Siamo onesti, abbiamo perso la guerra più lunga, e ce ne stiamo andando. Ne parlavo qualche giorno fa con il Generale David H. Petraeus, già comandante delle forze statunitensi in Afghanistan e successivamente direttore della CIA, che in un’intervista pubblicata da Start InSight si è così espresso in merito agli accordi di Doha: “Lo scopo nei colloqui di pace (…) è di allontanare le forze [statunitensi] così da poter rovesciare il governo afghano senza ostacoli. Invece di gettare le basi per un compromesso intra-afghano, già di per sé molto difficile, l’accordo sembra implicitamente anticipare ‘la fine del gioco’ così come gli stessi insorti hanno costantemente perseguito dal 2001: una riconquista talebana del Paese”.



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