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Anche il Tridicogate mostra che ci vuole un nuovo governo

“A che punto siamo?” – chiede Giuseppe Salvaggiulo al sindaco di Taranto Rinaldo Melucci nel bel pezzo oggi pubblicato su La Stampa. Domanda più che esaustiva, visto che parliamo dell’Ilva. Ma ancora più abrasiva è la risposta del primo cittadino: “A nessun punto”.

Ecco dunque la situazione della più grande acciaieria d’Europa a tre anni abbondanti (giugno 2017) dal momento in cui il gruppo Arcelor Mittal si aggiudica la gara per rilevare lo stabilimento, mentre la produzione langue e due altiforni su cinque (tra cui il più importante) sono spenti, con imponenti effetti di contrazione della produzione.

D’altronde Taranto è rappresentazione perfetta della condizione sospesa in cui “galleggia” la nazione in attesa dei soldi dell’Europa, in attesa della (probabile) seconda ondata del virus, in attesa di una nuova legge elettorale, in attesa della fine della blocco dei licenziamenti e così via.

Insomma “in attesa” per definizione. Eppure gli italiani hanno votato (per le regionali), dicendo cose importanti sugli equilibri politici nazionali: il governo però sembra come paralizzato nel terrore di cambiare, figlio ormai meno naturale di una maggioranza che conosce convulsioni fortissime nel suo socio di maggioranza relativa (il M5S) e tensioni varie anche a sinistra, come dimostrano le dichiarazioni di molti maggiorenti del Nazareno (Franceschini escluso).

Tutti però paiono terrorizzati all’idea di fare la cosa più giusta e per molti versi semplice, cioè dare vita ad un nuovo governo che rinsaldi il patto tra Pd, M5S e gli altri “soci”, un patto che avrebbe il pregio (innanzitutto, non anche) di chiarire cosa si intende fare negli anni a venire, in particolare nei 30 mesi circa che mancano alla fine della legislatura. È talmente evidente il bisogno di tale patto che stupisce non poco la scarsa volontà di darvi corso, probabilmente figlia di una condizione politica più fragile di quanto si voglia ammettere (soprattutto dalle parti di Palazzo Chigi).

Siccome però non è facendo finta di non vedere che si risolvono i problemi, ecco dieci buoni motivi per fare subito (e in fretta) un nuovo governo.

1) Mes o non Mes, la maggioranza deve impegnarsi in una qualche direzione in materia di aiuti europei, poiché le divergenze sul punto sono ormai diventate stucchevoli e non può andare avanti la tattica del rinvio come condizione permanente.

2) a due anni e più dal crollo del ponte Morandi siamo all’ennesimo braccio di ferro (via agenzie di stampa) sulle concessioni autostradali, con Aspi sempre meno orientata a seguire le indicazioni del governo. Serve quindi decidere una linea di condotta e darvi seguito seriamente (revoca, do you remember?)

3) profittando del fatto che si vola poco anche il dossier Alitalia ha perso di attualità, ma rimane il fatto che non è affatto chiaro il progetto industriale e non vi è traccia del tanto agognato partner strategico.

4) sulla già evocata situazione ex-Ilva c’è poco da fare i fenomeni: gli indiani sono più fuori che dentro, quindi c’è da decidere cosa fare, anche perché oggi gli stabilimenti sono di proprietà dello Stato.

5) tra cassa integrazione, licenziamenti bloccati e riforma del fisco l’intero sistema imprenditoriale attende di conoscere le linee guida dell’azione di governo dei prossimi anni;

6) il piano straordinario delle opere pubbliche sembra essere in dirittura d’arrivo (Conte ha annunciato un imminente decreto), ma resta il fatto che anche su questo un patto politico tra tutti darebbe maggior forza all’azione del governo;

7) il progetto di rete unica (e di Stato) è da solo in grado di caratterizzare una stagione di governo, renderlo “visibile” e politicamente condiviso segnerebbe un passo avanti importante anche davanti agli investitori;

8) si avvicina il voto negli Stati Uniti e nel frattempo il mondo è interessato da un rimescolamento di carte in ogni continente (si pensi agli accordi tra Israele ed Emirati Arabi): una messa a fuoco della nostra strategia internazionale sarebbe a dir poco doverosa (vedi alla voce Cina), anche perché le determinazioni in materia di 5G sono indifferibili;

9) abbiamo votato un referendum sul Parlamento ma ci troviamo senza legge elettorale (contrariamente a quanto pattuito nell’accordo del 2019. Ma soprattutto non c’è visione comune su come scriverla quella (fondamentale) norma;

10) molti (premier compreso) insistono sulla collaborazione con le opposizioni. Auspicio più che condivisibile dato il momento, ma tutt’altro che praticato sin qui.
Una maggioranza è tale se dice cosa vuole fare e con quali donne e uomini nei posti di responsabilità.
Altrimenti si gioca a perenne catenaccio, finendo però infilzati per storie di poco conto (si veda alla voce emolumenti per il presidente dell’Inps).

Ci vuole tanto a capirlo?

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