Da tre giorni la leader più simbolica dell’opposizione bielorussa, l’ex candidata Svetlana Tikhanovskaya, sta chiedendo che le Nazioni Unite prendano in mano la situazione nel suo Paese per evitare ancora arresti e soprusi della autorità contro i manifestanti. Tikhanovskaya parla dalla Lituania, dove si trova in esilio forzato. Si era candidata contro l’eterno presidente Aleksander Lukašenka, sembrava potesse avere qualche chance di vittoria, per la prima volta dopo quasi tre decenni di potere dell’ultimo dittatore d’Europa, ma le elezioni sono finite con il presidente eterno ancora al potere. Anzi, visto che i bielorussi esasperati avevano creduto in lei (e nel gruppo di oppositrici che aveva messo insieme), e le proteste contro l’autoritarismo di Minsk si sono fatte via via più coinvolgenti, il regime ha stretto i ranghi.
Mentre Tikhanovskaya è in Lituana, ieri una delle sue compagne di avventura, Maria Kolesnikova, è stata rapita da uomini incappucciati. Modus operandi tipico del Servizio di sicurezza statale, il Kgb, che ha ripetuto più volte questo genere di azioni contro i manifestanti. Un automobilista sostiene e di aver ripreso tutto, a Minsk; ma secondo altre ricostruzioni potrebbe essere stata fermata mentre cercava di superare il confine ucraino. Kolesnikova non è sotto il controllo del ministero dell’Interno, come d’altronde la polizia ha subito dichiarato (“non l’abbiamo arrestato”), ma probabilmente in una segreta dell’intelligence. All’estero o in carcere ci sono già i tre leader che avevano espresso volontà di candidarsi nei mesi scorsi – e di cui le tre eroine bielorusse hanno voluto riprendere il percorso senza una piattaforma politica precisa: promettevano semplicemente nuove elezioni democratiche in caso di una loro vittoria.
La situazione in Bielorussia è critica come non mai. L’ondata di manifestazioni che va avanti da quattro settimane non si ferma e il regime non ha altra risposta che il pugno duro. La scorsa settimana è stato costretto a lasciare il Paese, direzione Lituania, Pavel Latushko, ex ministro della Cultura che aveva osato legittimare alcune delle richieste della piazza. Lukašenka, padre-padrone a Minsk, non accetta certe posizioni. Durante le proteste di domenica scorsa, alcuni manifestanti per sfuggire alla cattura si sono gettati nello Svislach, il canale che taglia Minsk, al che una motovedetta della polizia li ha aiutati a risalire dalle acque perché erano in difficoltà: lunedì tutta l’unità è finita in galera accusata di aver collaborato con le opposizioni. Sabato, l’assistente di Kolesnikova, Olga Kovalkova, è stata portata fino alla frontiera polacca dalle autorità bielorusse e invitata con le dure maniere a lasciare il Paese.
Ancora: ieri due membri del consiglio che coordina le opposizioni sono stati arrestati perché erano andati a casa di Kolesnikova per raccogliere indizi su quanto poteva esserle successo. Ora, lo spostamento di alcuni leader anti-Lukašenka in Paesi limitrofi e l’apparizione di bandiere dell’Unione europea e di altri Paesi stranieri (Polonia, Lituania, Ucraina,, Usa, Canada, Germania) tra i manifestanti segna l’inizio dell’internazionalizzazione delle proteste. Le manifestazioni finora non avevano una connotazione geopolitica: chi scendeva in strada non chiedeva di sganciare la dipendenza di Minsk di Mosca, non chiedeva un futuro più occidentale per la Bielorussia, ma voleva solo che Lukašenka lasciasse la presa sul potere. Ma il riavvicinamento reciproco tra il batka, il padre, bielorusso e il Cremlino potrebbe aver spostato l’asse e la percezione di chi protesta.
Il coinvolgimento dei Paesi baltici è in parte causa e conseguenza: dalla Lituania il ministro degli Esteri giudica come “una vergogna del ventunesimo secolo” i “metodi stalinisti” visti a Minsk, ed è difficile non pensare che questo genere di posizioni non siano esacerbate dalle posture aggressivo-difensive che i Baltici hanno nei confronti della Russia. Inoltre la vicenda di Kolesnikova, d’altronde, è anche un punto di svolta. Diversi Paesi si sono esposti nel chiedere che il governo bielorusso chiarisca sull’accaduto. La Germania, che ha inizialmente cercato di trattare con Vladimir Putin per una via collaborativa per risolvere la crisi, esige di sapere dove si trova l’attivista e chiede la liberazione dei prigionieri politici. La crisi bielorussa si somma all’alta tensione russo-tedesca legata al caso-Navalny: come con l’avvelenamento del più famoso nemico di Putin la Germania spinge perché Mosca aiuti a far chiarezza e fermare Minsk – una passaggio che potrebbe ripulire in parte l’immagine russa già dalla prossima settimana, quando Lukašenka sarà al Cremlino per una visita (ma è molto difficile che succedano cambi di rotta).
Nel frattempo è molto probabile che l’Ue deciderà sanzioni contro il regime già nel Consiglio Affari esteri del 21 settembre, ma le misure si limiteranno ad alcuni papaveri del regime senza intaccare il conto del presidente. Bruxelles vuole cercare di mantenere con lui un’opportunità di dialogo, per adesso. Mentre Minsk cerca di delegittimare in tutti i modi le proteste, facendole passare come un piano ordito dall’estero e sembra mollare ogni contatto con extra-russo. Lukašenka sostiene per esempio di essere in possesso di una conversazione tra Varsavia e Berlino che dimostrerebbe l’intento dei due paesi di intestarsi le proteste: è la stessa in cui il batka rivendica di avere le prove del coinvolgimento polacco e tedesco dietro all’avvelenamento di Alexei Navalny. Metodi per giustificare la repressione come atto di difesa contro l’azione dei nemici e per riallinearsi alla Russia, attualmente unico difensore di Minsk (così come Minsk è l’unico a difendere Mosca sulla vicenda del tentato assassinio al Novichok dell’oppositore del Cremlino).