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Il centrodestra e la lunga traversata del deserto. Il commento di Curini

Il contrasto tra realtà e aspettative in politica conta, molto più di quello che si creda. Ed è quello che, al di là dei freddi numeri, trasforma un risultato in una vittoria o in una sconfitta. La giornata elettorale appena conclusa ne è un esempio lampante. I risultati: la coalizione del centro-destra strappa una regione storicamente rossa come le Marche al centrosinistra, tenendo in scioltezza sia la Liguria che il Veneto. E, almeno stante agli exit-poll, potrebbe conquistare anche la Valle d’Aosta. 4 regioni su 7 a disposizione. Complessivamente 15 regioni su 20. Bene anche nelle comunali, dove dovrebbe anche qua sfilare ad esempio Lecco al centro-sinistra. E paradossalmente anche nel referendum, dove, almeno ufficialmente, appoggia quei Sì che vincono comodamente.

E invece? Invece il risultato rappresenta una cocente delusione se confrontato con le aspettative che c’erano: quelle del 7-0 sbandierato da Salvini, quelle dei proclami di una (ennesima, possibile, probabile) spallata al governo che avrebbe aperto l’eden di nuove elezioni (o, per lo meno, di un nuovo governo), e che invece ha avuto come unica conseguenza la mobilitazione non tanto del proprio elettorato, quanto di quello dell’avversario (esattamente come già successo in Emilia-Romagna mesi fa).

E così il centro-sinistra e il M5S hanno gioco facile a sottolineare il buon esito della tornata elettorale, pur con tutti gli oggettivi limiti della cosa. Il M5S può sbandierare il successo nel referendum, che è figlio al 100% della filosofia grillina. E pazienza se come lista tracolla come percentuale dovunque. Dall’altra parte il Pd perde qua e là, ma tiene dove conta. Mentre Zingaretti blinda definitivamente il governo, dove vedrà ragionevolmente rafforzato il suo ruolo a seguito proprio della tornata elettorale (in cui anche Italia Viva esce decisamente indebolita). Un governo che dopo discussione sul patto di stabilità, Recovery Fund e il semestre bianco a partire da luglio 2021, ora deve anche impegnarsi nel ridisegnare i collegi e probabilmente anche nella creazione di una nuova legge elettorale. Insomma, Conte può stare ragionevolmente tranquillo almeno fino a metà 2022. Mentre il centro-destra dovrà attraversare il deserto di una lunga opposizione, con il rischio (più che concreto) di un nuovo Presidente della Repubblica e di una legge elettorale non propriamente simpatetici alle sue ambizioni.

Quindi, siamo al day-after per l’attuale opposizione? Non necessariamente. Prediamo Matteo Salvini: politicamente non ne ha azzeccata una da 13 mesi a questa parte (anche il non aver appoggiato il No al Referendum rientra, a detta di chi scrive, tra questi errori – forse uno dei più rilevanti, assieme alla già citata ossessione della “spallata elettorale risolutiva”), eppure la Lega continua a rimanere ampiamente (e con tranquillità) il primo partito (con Meloni ancora molto distante), la supposta concorrenza interna al partito di Zaia continua ad essere più che altro un gossip giornalistico, il centrodestra assieme è stabile intorno al 50% e la tanto sbandierata alleanza tra Pd e M5S, quando si materializza, come in Liguria, appare fallimentare. Figurarsi quindi cosa sarebbe potuto succedere se fosse stato più strategico.

Ma la fortuna (politica) non può durare in eterno. Prendiamo il caso, trascurato da molti, del seggio supplettivo per il Senato nel collegio Sardegna-03: qua ha vinto un candidato del centrodestra che prende il posto del seggio che era stato appannaggio nelle ultime elezioni politiche al M5S. Il che implica 1 senatore in meno per il governo in un Senato dove già i numeri della maggioranza scricchiolano da tempo. In questo senso è vero che da piccole cose possono derivare conseguenze inattese e importanti. Ma per sfruttare con successo eventuali occasioni, per trasformare un granello in una valanga, occorre una visione di più ampio respiro, che vada oltre all’immediato (come è stata al contrario la storia del centrodestra dal post-Papeete ad oggi) e che invece ripensi anche gli obbiettivi (programmatici e non) almeno del medio-periodo.

Compreso la qualità dell’offerta della sua classe politica, che in alcuni casi funziona, ma in altri (Puglia e Campania su tutte) no. Insomma, la situazione in cui verte il centro-destra non si risolverà di per sé grazie ad un senatore in più. Certo, male non fa. Ma senza un cambio di passo, rimarrà una camomilla in attesa del 2023.

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