Alla Congregazione per la Dottrina della Fede ricordano certamente il caso “Recife” e la polemica che oppose l’arcivescovo Rino Fisichella e il suo collega brasiliano, titolare della diocesi di Recife. Lo ricordano perché quel caso arrivò proprio da loro, alla Congregazione per la Dottrina della Fede, dopo un articolo su L’Osservatore Romano firmato da monsignor Rino Fisichella in difesa della dignità di un bambina di nove anni che era stata abusata e messa incinta dal padre, in una baracca degradata della periferia di Recife, e che la madre e i medici ritennero di far abortire. Monsignor Fisichella difesa la dignità di quella piccola creatura, finita al centro di veementi polemiche. Ma il vescovo di Recife e i gruppi pro-Life ebbero la meglio.
La scomunica comminata ai medici per la Congregazione era giusta, l’aborto sempre sbagliato. E sì che monsignor Fisichella si era limitato a scrivere che prima che della scomunica si sarebbe dovuto parlare e scrivere di quella bambina: “Doveva essere in primo luogo difesa, abbracciata, accarezzata” con quella “umanità di cui noi uomini di Chiesa dovremmo essere esperti annunciatori e maestri”. Per quanto il documento della Congregazione fu pubblicato con pochissimo risalto non mi sembra che le cose siano andate come auspicava monsignor Fisichella. Il caso risale al 2009.
Non sono certo i casi-limite come quello di Recife che possono aiutare un dialogo vero su drammi sociali di questa portata, l’aborto in sé non si valuta su un caso del genere. Ma quel caso può essere valutato come tanti altri? Si può costruire un sentire comune procedendo così?
La questione mi è tornata alla mente leggendo il testo diramato oggi dalla stessa Congregazione su eutanasia e suicidio assistito. Vi si legge: “L’eutanasia è un atto omicida che nessun fine può legittimare e che non tollera alcuna forma di complicità o collaborazione, attiva o passiva. Coloro che approvano leggi sull’eutanasia e il suicidio assistito si rendono, pertanto, complici del grave peccato che altri eseguiranno. Costoro sono altresì colpevoli di scandalo perché tali leggi contribuiscono a deformare la coscienza, anche dei fedeli”. Atto omicida… Nulla può giustificare…
Personalmente mi sono sempre chiesto perché la Chiesa parli e voglia parlare sempre di “fine vita” e mai di “inizio viaggio”: Giovanni Paolo II dicendo “lasciatemi tornare alla casa del padre” non chiedeva certamente l’eutanasia, chiedeva che non ci fossero “accanimenti terapeutici”. Che la dottrina e la fede escludono.
Dunque “l’atto omicida” non riguarda tutto e sempre. La Congregazione definisce eutanasia ciò che per essa esclude l’accanimento terapeutico, senza però specificarlo. Infatti l’accanimento terapeutico esiste e nel Catechismo si legge al punto 2278: “L’interruzione di procedure mediche onerose, pericolose, straordinarie o sproporzionate rispetto ai risultati attesi può essere legittima. In tal caso si ha la rinuncia all'”accanimento terapeutico”. Non si vuole così procurare la morte: si accetta di non poterla impedire. Le decisioni devono essere prese dal paziente, se ne ha la competenza e la capacità, o, altrimenti, da coloro che ne hanno legalmente il diritto, rispettando sempre la ragionevole volontà e gli interessi legittimi del paziente”.
Di questo però nel documento non troviamo cenno, perché loro lo escludono dalla casistica relativa all’eutanasia e lo riferiscono a quella relativa all’accanimento terapeutico. Per chi parla con se stesso è chiaro, per chi vuole parlare con gli altri meno. E allora, se si ha il tempo di definire peccatori i legislatori sull’eutanasia, perché non trovarlo per incoraggiarli a legiferare sull’accanimento terapeutico?
Il documento della Congregazione non può essere letto solo con le lenti dei canoni, sono importanti i toni. I toni di questo documento, ad esempio, risultano molto diversi da quelli usati da papa Francesco. Il papa non esprime una posizione diversa. Ha scritto molto chiaramente su Twitter: “L’eutanasia e il suicidio assistito sono una sconfitta per tutti. La risposta a cui siamo chiamati è non abbandonare mai chi soffre, non arrendersi, ma prendersi cura e amare per ridare la speranza”. Sono le stesse cose, ma è un altro mondo. La sconfitta per tutti, la speranza, il prendersi cura… qui chiaramente siamo in un mondo dove si ricerca la comprensione, il dialogo. Qui dunque possiamo chiaramente discutere dei diritti dell’uomo. Nel documento della Congregazione per la Dottrina della Fede invece si sente l’idea che qualcuno sia incaricato di difendere i diritti di Dio. È su questo che non ci si potrà mai capire tra chi si sente incaricato di tutelare i diritti di Dio e chi invece parla dei diritti dell’uomo.
Il no all’eutanasia e al suicidio assistito, ben rapportato al no all’accanimento terapeutico, rientra chiaramente nella difesa dei diritti dell’uomo. La cultura secolarizzata infatti, proprio come quella espressa dal Documento dell’ascesa Congregazione, difende un’ideologia, quello apposto: qui è l’io ad essere sovrano e poter fare come ritiene. I singoli casi, le storie, le esperienze, i drammi, le sofferenze, tutto questo sparisce nel primo come nel secondo caso. Nel brevissimo tweet del papa invece siamo tutti chiamati a liberarci dallo scientismo: lo scientismo eutanasico, che non vede il malato, e lo scientismo di certa fede, che dimentica l’accanimento terapeutico e ritiene ogni terapia un dovere davanti a Dio. Solo capendosi su questo, su questa indiscutibile realtà, potremmo evitare di tornare a un muro contro muro che è figlio del passato e che proprio questo pontificato sta cercando di superare, senza grandi aiuti dal versante secolarizzato.
Non si tratta di stabilire il diritto a togliersi la vita, ma di riconoscere che accanto all’egoismo dell’io sovrano che non vuole perdere tempo accanto a un congiunto gravemente malato esiste anche l’accanimento terapeutico, e molti parenti sono lasciati nel dubbio terribile: lo sto sottoponendo a sofferenze inutili solo per la soddisfazione di una scienza che si fa Dio? Questo dramma ai custodi dei diritti di Dio non interessa? Sarà interessante il parere dell’autorità competente, cioè la Pontificia accademia per la vita.