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Cosa (non) ha capito Pompeo dell’accordo Cina-Santa Sede. Parla Melloni

“Ci vuole ben altro”. Alberto Melloni, storico, saggista, direttore della Fondazione Giovanni XXIII, non ha alcun dubbio: il duro appello del Segretario di Stato americano Mike Pompeo contro il rinnovo dell’accordo fra Santa Sede e Cina non scalfirà i negoziati. “Ed è giusto che sia così”.

Professore, la Santa Sede risponderà?

No, non credo ne abbia bisogno. Perché rispondebbe a un’operazione di pura propaganda interna, a un intervento che mette in discussione l’autonomia della Santa Sede e la dignità della Chiesa in Cina.

A dire il vero, la Cei ha risposto, su Avvenire.

In molti, non solo la Cei, sono scettici di un uso strumentale delle relazioni fra Stati Uniti e Santa Sede a fini elettorali. Bene dunque stigmatizzare le parole di Pompeo. La Santa Sede non si fa impressionare da un articolo su First Things.

Crede che la visita di Pompeo in Vaticano del 29 settembre sia compromessa?

Ne dubito. Se Pompeo ha scritto un editoriale del genere, vuol dire che dà per scontato che l’incontro il segretario di Stato Vaticano Pietro Parolin si prospetti poco proficuo. Resta stupore per la modalità scelta. Solitamente il segretario di Stato è una figura prudente, che non si getta nella campagna elettorale. Con Pompeo succede il contrario.

Il 4 ottobre il segretario di Stato vaticano Pietro Parolin sarà a un evento del Pime sulla Cina, a Milano. Potrà spiegare le ragioni del rinnovo?

Ma le ragioni sono note. Lavorare a un’intesa con le autorità cinesi non significa ignorare le violazioni dei diritti umani e della libertà di culto in Cina. Significa riportare unità all’interno della Chiesa, cioè attuare la missione del ministero apostolico petrino.

A distanza di due anni, che bilancio fa di quell’accordo?

Una premessa: di quell’accordo non sappiamo i dettagli, ma conosciamo il modello, che è l’accordo fra Santa Sede e Vietnam. L’obiettivo era regolare la nomina dei vescovi, evitare che i vescovi in comunione con Roma fossero indicati come traditori, scongiurare una spaccatura insanabile fra le comunità cristiane.

Ci sono riusciti?

Sono state poste le basi per un dialogo. È presto per tirare le somme. E prenderei cum grano salis le critiche. Fra i cardinali così come fra i funzionari del Partito comunista cinese, c’è chi ha visto nell’accordo la fine di un’estraneità intollerabile e chi un tradimento. Chi lo considera un successo e chi, in Cina, vorrebbe più arresti e meno vescovi.

Il Vaticano è uno dei pochi Stati che riconoscono Taiwan. Crede che i rapporti con l’isola possano essere sacrificati sull’altare dell’accordo?

No, perché è un accordo pastorale che non tocca i rapporti diplomatici. Il Vaticano vuole l’unità della Chiesa in Cina e il bene dei credenti a Taiwan. Le nunziature si aprono e si chiudono, ma al centro di questo accordo ci sono le chiese locali.

Fra i cattolici americani, vescovi inclusi, c’è un ampio fronte critico dell’intesa.

La polarizzazione interna al cattolicesimo americano è un problema che i vescovi devono affrontare. Sull’accordo con la Cina come su tanti altri temi etici, bisogna però saper distinguere fra dissenso e antagonismo oltranzista nei confronti del papa.

Una delle critiche più frequenti è questa: il papa potrebbe denunciare, ma preferisce il silenzio.

Non dimentichiamo che le parole del papa possono decidere il destino di milioni di fedeli. Le stesse accuse furono mosse a papa Pio XII dai polacchi, che lo ritenevano eccessivamente morbido verso la dominazione comunista. Allora come oggi, in verità, si trattava di Ostpolitik, un tentativo di salvare le comunità cattoliche dalle ritorsioni del regime.

I conservatori americani puntano spesso il dito contro una presunta vicinanza dei gesuiti ai movimenti socialisti. C’è del vero?

La politica è una costante della storia della Compagnia di Gesù. Fu Madame de Pompadour a chiedere di scioglierla, perché irritata dall’intransigenza dei gesuiti verso la sua relazione con il re di Francia. Mi sembra che da parte americana si dimentichi che Bergoglio è sì un padre gesuita, ma anche un cattolico di un Paese dove la politica golpista ha lasciato ferite profonde. Dipingerlo come un filo-socialista rivoluzionario è ridicolo.


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