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Covid-19, a che punto siamo. Virus, pazienti e prospettive secondo Novelli

Sono trascorsi ormai sette mesi dalle notizie sui primi focolai in Italia di quella che è poi diventata una pandemia gravissima, che non accenna a retrocedere e ha fatto superare, nel mondo, la soglia del milione di vittime. Dopo una stagione, quella estiva, che ha fatto credere che il nostro Paese potesse essere in fase di uscita dall’incubo, oggi i casi sono in aumento, e le domande senza risposta crescono di pari passo: ci chiediamo se il virus sia cambiato, se la malattia si sia modificata, diventando meno grave, a che punto sia la ricerca per prevenirla o per controllarla. E ancora: quando avremo un vaccino efficiente? Come affronteremo l’inverno? Quanto dureranno le restrizioni che giustamente ci vengono prescritte?

 IL VIRUS COVID-19

La causa alla base di Covid-19 è il virus coronavirus SARS-CoV-2. Non ci sono più dubbi sulla sua origine naturale, che ha permesso alla proteina S (spike) di evolversi per legarsi in modo specifico a un enzima presente nelle nostre cellule (l’ACE2, che normalmente agisce nella regolazione della pressione arteriosa). È proprio questo adattamento specifico che ci indica la sua origine inequivocabilmente naturale. Il virus è abbastanza stabile, non muta in modo significativo e si è diffuso attraverso il contatto tra umani. Non ha capacità intrinseche di crescita rapida e nemmeno un’evoluzione continua: sono poche le mutazioni identificate ad oggi in grado di avere un significato clinico. Una sola mutazione della proteina spike, la D614G, sembra essere la forma dominante del virus, ma non ha effetti clinici evidenti. Recentemente, a Singapore e in altri paesi è stata identificata una nuova mutazione, la variante ∆382, che sembra essere associata a un’infezione più lieve, ma su questo non disponiamo ancora di dati certi. Molte altre mutazioni sono state identificate e descritte, ma nessuna di queste fino ad oggi è associata a una maggiore trasmissione virale. Sebbene possano ancora verificarsi cambiamenti adattivi, tutti i dati disponibili in questa fase suggeriscono che abbiamo a che fare con lo stesso virus dall’inizio della pandemia. Paradossalmente, la bassa diversità genetica di SARS-CoV-2 si potrebbe tradurre in un vantaggio per l’immunizzazione vaccinale di massa.

PAZIENTI E SINTOMI

I sintomi dopo l’infezione sono la fonte primaria di trasmissione del virus. Ma ormai è certo che anche i soggetti asintomatici sono contagiosi, e addirittura più potenti nella diffusione del virus. La trasmissione avviene per via respiratoria e attraverso stretto contatto. È possibile che il virus si possa trasmettere anche in ambienti chiusi e dopo una lunga esposizione. Le persone suscettibili al SARS-CoV-2 includono tutte le fasce di età, e tuttavia gli anziani rimangono quelli a maggior rischio per co-morbidità pre-esistenti (diabete, malattie cardiache e altre malattie croniche); invecchiamento del sistema immunitario; e probabilmente, ma c’è qualche dubbio in merito, un’aumentata espressione del recettore ACE2 nei tessuti.

Non vi sono differenze etniche o di popolazione, il virus infetta tutti nello stesso modo. Le differenze esistono per ragioni socio-economiche, come è evidente negli Usa per i gruppi etnici svantaggiati nell’accesso alle cure. Si è attenuata la differenza di genere. L’Oms ha riscontrato che gli uomini costituiscono il 51% dei casi confermati mentre le donne il 49%. Differente è invece il tasso di mortalità, che varia tra lo 0,0% e il 12% nei diversi Paesi, con una media di circa il 3,14%. Queste valutazioni sono soggette a molte variabili per i fattori concomitanti di rischio quali l’età, il sesso e le condizioni cliniche preesistenti.

Ma perché la risposta individuale all’infezione da SARS-CoV2 varia così tanto da persona a persona? Perché alcuni, pur essendo sempre esposti al virus, non solo non si ammalano, ma neanche si infettano (vengono definiti “resistors”)?; conoscere e comprendere l’origine delle differenze individuali aiuterebbe a identificare i pazienti ad alto rischio, anticiperebbe e migliorerebbe i protocolli sanitari da attuare e fornirebbe nuove vie terapeutiche.

Una risposta importante è venuta proprio qualche giorno fa, quando la rivista Science ha pubblicato uno studio del Consorzio Internazionale di Genetica (COVIDHGE) a cui partecipano anche gruppi Italiani (Univ. Tor Vergata, Bambino Gesù di Roma, San Raffaele Milano, Ospedale Brescia, Cnr Napoli, fra gli altri) che ha permesso per la prima volta di identificare quali sono le basi genetiche e immunologiche del 15% delle forme gravi di Covid-19. Questo 15% di pazienti ha in comune un difetto nella produzione degli interferoni di tipo I (IFN), proteine che aiutano a regolare l’attività del sistema immunitario con funzioni antivirali. Questo studio dimostra che i nostri geni possono influenzare il modo in cui il sistema immunitario risponde a un’infezione, e quindi chiarire perché alcune persone presentano sintomi più gravi della malattia e anche perché determinati pazienti potrebbero non rispondere ad alcune terapie. La scoperta è importante proprio perché ha immediate ripercussioni sulla terapia: suggerisce infatti l’impiego di interferone di tipo 1 in questi pazienti, e considerato che questo farmaco è conosciuto da più di 30 anni e non ha dimostrato effetti collaterali evidenti se assunto per un breve periodo di tempo, ipotizza un valido percorso terapeutico. Dozzine di studi clinici randomizzati sono stati già avviati impiegando interferoni contro SARS-CoV-2. Ma gli interferoni sintetici non aiutano i pazienti che hanno mutazioni che impediscono il funzionamento degli interferoni, né quelli con auto-anticorpi che li attaccano.

È un grande passo avanti, e abbiamo il dovere di utilizzare queste informazioni nella pratica clinica. La ridotta mortalità che stiamo registrando oggi non è dovuta a mutazioni del virus, ma semplicemente alle conoscenze scientifiche che vengono applicate rapidamente, come è successo con l’impiego del desametazone, che ha ridotto le morti del 20-30%. C’è molto da imparare su come questo virus agisce e causa il Covid-19. Al momento non disponiamo di nessuna terapia efficace e di nessun vaccino. È vero che vi sono in fase di studio oltre 200 diversi candidati vaccini, ma nessuno di loro si è ancora dimostrato efficace e sicuro. Almeno 4 vaccini sembrano molto promettenti e hanno avviato i test di fase 3 che sono fondamentali per l’approvazione. Tuttavia, sono necessarie ulteriori ricerche in questo campo, perché i dati preliminari suggeriscono che gli anticorpi generati dalle persone guarite non durano più di tre mesi, come confermato tra l’altro dai soggetti che si ri-infettano con lo stesso virus, come peraltro avviene per gli altri coronavirus che causano il raffreddore. Una potenziale spiegazione della reinfezione è che i coronavirus umani sono abili nel manomettere la nostra immunità adattativa, assicurando che la nostra risposta a lungo termine al virus non sia potente o duratura come lo è per molti altri virus. Due difese in particolare, le cellule T killer e le cellule B (plasmacellule che producono anticorpi), sono responsabili del mantenimento di questo slancio. Quando si verifica un’infezione virale, entro una o due settimane compare un tipo di anticorpo chiamato IgM. Gli anticorpi IgM si mobilitano contro il virus, quindi iniziano a scomparire nei mesi successivi. Due o tre settimane dopo la scomparsa di un’infezione, compaiono gli anticorpi IgG. È il caso di molti virus, compresi quelli che causano la maggior parte delle malattie infantili, che livelli ragionevolmente alti di anticorpi IgG persistono per molti anni. Questo non è il caso dei coronavirus umani.

 PROSPETTIVE FUTURE

Non avendo ancora vaccini o terapie mirate, occorrono rapidamente altre soluzioni efficaci, anche e soprattutto in considerazione della fase di ripresa economica e sociale, e per consentire agli ospedali di operare a pieno regime. Una risposta potrebbe venire a breve dagli anticorpi monoclonali, molecole specificamente costruite per bloccare il virus e impedire il suo ingresso nelle cellule. Queste molecole sono altamente specifiche, pure, e a basso rischio di contaminazione da agenti patogeni del sangue e soprattutto sicure rispetto alla terapia al plasma di convalescenza, come è stato dimostrato recentemente. La somministrazione passiva di anticorpi monoclonali potrebbe avere un impatto importante sul controllo della pandemia di SARS-CoV-2 fornendo protezione immediata e integrando lo sviluppo di vaccini profilattici. Anche quando il vaccino sarà disponibile, poter disporre di una “immunità passiva” offerta dagli anticorpi monoclonali sarà estremamente importante in tutte quelle circostanze in cui non ci sono le condizioni adatte ad una profilassi vaccinale, con i suoi tempi e i suoi protocolli. È questo, ad esempio, il caso delle strutture come ospedali e case di cura, o centri sanitari, industrie ad alto rischio o navi da crociera. Non è un caso che il governo americano abbia investito più di 450 milioni di dollari negli anticorpi monoclonali per garantirsi almeno 300.000 dosi nei prossimi mesi.

L’inverno è alle porte e le stime sull’andamento futuro delle infezioni non sono affatto confortanti. Lo spettro di una “twindemic” – cioè di due epidemie, influenza e Covid-19 che si presentano contemporaneamente – ci preoccupa. Nessuno può prevedere cosa accadrà quando l’influenza incontrerà il Covid-19, ma dobbiamo essere preparati.  Richard Webby, virologo presso il St. Jude Children’s Research Hospital di Memphis, Tennessee, ha ipotizzato che – quando emerge – un nuovo ceppo influenzale pandemico, ne spinge fuori un altro. Ad esempio, quando è emerso il ceppo pandemico influenzale H1N1 del 2009, un altro ceppo influenzale H1N1 che era in circolazione dal 1977 è scomparso. SARS-CoV-2 e l’influenza competeranno per l’infezione da parte degli ospiti? Non abbiamo una risposta certa al momento. Nelle competizioni virali per l’ospite a volte vincono entrambi i virus, infettando una persona allo stesso tempo. Le coinfezioni da SARS-CoV-2 e influenza saranno probabilmente rare. Un’analisi suggerisce che solo il 3% circa dei pazienti Covid-19 sia stato contemporaneamente infettato da un altro virus. Questo perché le infezioni virali tendono ad attivare i sensori specifici del sistema immunitario innato, che lasciano in uno stato di allarme le nostre cellule consentendo di alzare gli scudi per scongiurare eventuali intrusi successivi. Infatti è dimostrato che i vaccini contro la tubercolosi, il morbillo o la poliomielite – che contengono virus o batteri vivi indeboliti – potrebbero fornire una certa misura di protezione contro Covid-19 rafforzando generalmente il sistema immunitario. I vaccini antinfluenzali iniettati sono generalmente realizzati con virus uccisi e non offrono la stessa protezione antivirus generalizzata dei vaccini vivi. Ma è opportuno, come suggerito dalle organizzazioni mondiali della sanità pubblica, sollecitare le persone a vaccinarsi per l’influenza, in modo da ridurre la possibilità di essere infettati da entrambi i virus sperando di scongiurare una brutta stagione influenzale.

Per tutte queste ragioni, è necessario pensare in modo più globale: responsabilità dell’individuo nei comportamenti precauzionali, indicazioni coerenti e razionali, cooperazione tra Enti e istituzioni, circolazione di conoscenze e applicazioni immediate di queste nella pratica clinica. Oltre a ciò, è necessario ed urgente anche attivare subito lo screening per gli anticorpi anti-interferone che possono e devono essere sviluppati rapidamente. In molti modi si può aiutare la ricerca, e contribuire a far sì che in tempi ragionevolmente brevi il frutto degli studi di laboratorio si traduca in pratiche concrete per la salute pubblica. Un dialogo aperto, costruttivo e competente, ad esempio, stimola il lavoro di molti, tiene a bada l’influenza tossica delle fake news e la conseguente “ignoranza isterica” cui troppo spesso si assiste. Quella contro il virus SARS-CoV-2 è una battaglia che l’umanità può vincere. Le tante risposte che cerchiamo possono essere trovate. Basta cercarle, bene, e a fondo.


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