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Dalla Cina al Venezuela, cosa (non) unisce Santa Sede e Farnesina. Parla Giovagnoli

Dalla Libia al Libano, dalla Cina alla Turchia, sono tanti i dossier di politica estera che oggi vedono in prima linea tanto la Farnesina quanto la Santa Sede. Lo dimostrano le consultazioni che il ministro degli Esteri Luigi Di Maio ha tenuto con il segretario per i rapporti con gli Stati del Vaticano, monsignor Paul Richard Gallagher. Su quali però c’è sintonia da una parte e l’altra del Tevere? Lo abbiamo chiesto ad Agostino Giovagnoli, storico, docente presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore.

Professore, partiamo da una sua impressione. C’è feeling fra questo governo e la Santa sede?

Direi che i rapporti sono buoni, non eccezionali. Ci sono state stagioni di più intensa cooperazione. I diari di Andreotti appena pubblicati raccontano ben altra intesa fra le due sponde del Tevere.

Di Conte si è detto spesso che sa muoversi nei Sacri Palazzi. E Di Maio?

Conte effettivamente non ha mai nascosto la sua tela di rapporti nata a Villa Nazareth. C’è stata qualche incomprensione, come quando il primo anno ha avallato la tassazione verso il terzo settore, per poi rimangiarsela. Sia lui che Di Maio sono uomini di recente approdo alla politica, entrambi molto cambiati negli ultimi due anni. Hanno imparato il mestiere, e in Italia questo significa anche tener conto di un vicino così particolare.

Insomma, c’è intesa?

Intesa sì, non nel senso andreottiano del termine. È più solida ai massimi piani: il presidente della Repubblica Sergio Mattarella e papa Francesco hanno ottimi rapporti, come Giovanni Paolo II e Sandro Pertini all’epoca.

Alla Farnesina Di Maio ha parlato con Gallagher di libertà religiosa. Un tema a cuore anche e soprattutto a Washington Dc…

Vero, diritti umani e libertà religiosa sono temi tradizionalmente cari alle diplomazie anglosassoni, specie a quella americana, e hanno una valenza politico-diplomatica rilevante. Con Trump c’è stato un rilancio significativo. Il presidente è disinteressato alle dinamiche religiose, i suoi collaboratori no.

La Santa sede è in sintonia con il Dipartimento di Stato?

Solo parzialmente. È stata molto attenta a evitare strumentalizzazioni, a non farsi trascinare nel tatticismo politico. Non a caso, quando hanno lanciato una coalizione di Stati per la libertà religiosa, gli americani non hanno invitato il Vaticano.

E fra Farnesina e diplomazia vaticana? C’è unità di intenti?

Difficile dirlo, la politica estera italiana è un grande cantiere. È passata un po’ drasticamente dall’antieuropeismo e antiamericanismo del Conte 1 all’europeismo di questo governo. Di Maio, nella vostra intervista, ribadisce i due caposaldi: Ue e Usa. Negli ultimi anni non era stato così chiaro.

L’atlantismo è una lente con cui leggere la politica estera vaticana?

Non è mai stato un elemento fondante. Basti pensare che, all’epoca dell’adesione italiana alla Nato nel 1949, la Santa Sede espresse molte perplessità, la vedeva come una subordinazione a un blocco. Certo, erano altri tempi. Ma anche oggi il mondo è diviso in blocchi: Usa, Ue, Cina. E sembra che la diplomazia vaticana cerchi una speciale sintonia con l’Ue.

Con gli Usa non mancano incomprensioni, anche a livello ecclesiale. La Chiesa di papa Francesco è più vicina ai cattolici per Joe Biden o a quelli che sostengono Donald Trump?

In America oggi c’è una forte tendenza tradizionalista che accomuna cattolici ed evangelici. Questa componente pesa molto sull’episcopato americano e non è affine alle posizioni della Santa Sede. Sono uno schieramento delle cosiddette “guerre culturali”.

Un altro dossier sul tavolo delle consultazioni alla Farnesina è la crisi in Venezuela. Nell’intervista a Formiche.net Di Maio ha condannato il regime venezuelano spiegando che l’Italia non riconosce le elezioni presidenziali. La Santa Sede ha mantenuto una linea più prudente.

Non potrebbe essere altrimenti. La Chiesa deve sempre incoraggiare il dialogo in situazioni di conflitto. In Italia si è spesso parlato di questa crisi in chiave ideologica, come di una bandiera. È inevitabile che ci siano divergenze. Penso al tema delle sanzioni, che papa Francesco ha chiesto di rimuovere, perché colpiscono la popolazione.

Giovagnoli, passiamo alla Cina, grande assente dal comunicato congiunto. Sorpreso?

A dire il vero no. Cina e Santa Sede hanno scelto di mantenere strettamente riservato il dialogo bilaterale.  La stessa prudenza appartiene alla Farnesina. Un tempo, penso al 2000 con i governi Amato e D’Alema, il governo italiano faceva da pontiere fra il Vaticano e la Città Proibita. Oggi c’è più cautela, come dimostra la visita del ministro degli Esteri cinese Wang Yi, che è stato ricevuto a Roma da Di Maio, non da Conte.

Si vocifera di un incontro fra Wang e Gallagher a Roma per l’accordo Cina-Vaticano da rinnovare entro il 22 settembre…

Non era previsto e non c’è stato, sono solo speculazioni, lo dissero anche quando venne Xi Jinping. È una scelta coerente con il protocollo cinese: una visita in Italia è in Italia, non in Vaticano. Da Pechino filtra ottimismo.

I cinesi non alzeranno la posta?

Altre voci prive di fondamento. Si è parlato di una richiesta per chiudere i rapporti diplomatici con Taiwan, non è vero.

E su Hong Kong?

Ne resterà fuori, come da protocollo. Questo accordo riguarda i rapporti fra Santa Sede e Cina, le nomine dei vescovi, la vita della Chiesa. Hong Kong è una questione fondamentale, ma è politica. E lì c’è già il cardinale Tong Hon, un amministratore apostolico di peso che già si è espresso chiaramente su quanto sta accadendo.

Chiudiamo con un altro tema caro a entrambe le diplomazie, di cui hanno discusso Di Maio e Gallagher: la Turchia. Crede che il Vaticano sia preoccupato di una Turchia sempre più islamista e sempre meno europea a poche miglia dalle coste italiane, in Libia?

Certo che è preoccupata, ma segue una strategia chiara. Quando abbiamo assistito alla riconversione in moschea di Santa Sofia, papa Francesco ha parlato per nove secondi. Nove. Non vuole cadere nella trappola di Erdogan, che cerca uno scontro di civiltà.



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