Per chi scompariva una volta prima del previsto non erano mai pronti i coccodrilli. Più di recente si è soliti riparare con il soccorso di Wikipedia. Adesso che la “erre francese”, grondante di stille ironiche ed eleganti, che arrotolava Philippe Daverio nelle sue avvolgenti affabulazioni, si spegne e non la sentiremo più, se non nel cospicuo materiale in video, non è difficile immaginare quale potrà essere la parola ricorrente nel ricordo.
“Divulgatore”, è la parola che galleggia davanti alle altre nelle biografie di Philippe, e ci sta tutta, se pensiamo, a cosa significhi, ricordando, per esempio, l’immenso lavoro pedagogico che, sul piano della cultura tecnico-scientifica, viene svolto da suoi “colleghi” come Piero e Alberto Angela. Ma anche questo meritorio lemma va usato con parsimonia, senza il retropensiero della contrapposizione con la “pedagogia togata”, quella dell’Accademia a cui Philippe non chiese mai di accedere (anche se è stato chiamato a fare il professore a contratto nelle Università).
E con parsimonia va usato anche l’inevitabile accostamento – per compiacersi delle differenze – con l’altro storico dell’arte “non togato”, Vittorio Sgarbi, di sensibilità meno lontano da lui di quanto non appaia, a parte la sua scelta di comunicare in modo circonfuso da clamore, opposta allo stile di Daverio, gentile e signorile, pur senza rinunciare a graffi di sarcasmo anche sulfureo.
Piuttosto occorre ricordare Philippe per il connotato saliente della sua sensibilità artistica, l’esperienza di gallerista, a Milano, a 26 anni e a New York, qualche anno dopo, innamorato delle avanguardie del Novecento. Dunque l’arte amata e praticata e non soltanto come oggetto un po’ feticista di elaborazione concettuale, ma come materia viva, come mestiere, come vita. Nei suoi libri – decine e tutti best-seller – così come nei suoi seguitissimi prodotti televisivi, c’è una straordinaria coerenza del narratore che sembra sguazzare con soddisfazione immensa nel suo narrato: è che Philippe con l’arte ci stava bene, perché la viveva come espressione sublimata dell’umano che è in ognuno di noi. Un umano, però, collocato geograficamente e storicamente: un europeo.
Ecco: se dovessi ricordare Daverio penserei a lui come ad un modello ben riuscito dell’utopia europea. Già la sua biografia lo racconta: nasce a Mulhouse, in Alsazia, una terra di mezzo tra la Francia e la Germania, da madre francese e padre italiano, ha amato l’Italia con gli occhi che potevano avere i grandi letterati dell’Ottocento quando venivano da noi per farsi rapire dalla “sindrome di Stendhal”. Ma Daverio la sua utopia l’ha declinata anche politicamente: ricordo la sua campagna elettorale lo scorso anno, nel nord est, candidato per il Partito Democratico Europeo, erano performance i suoi interventi nei convegni politici, in cui faceva di se stesso, della sua biografia, della sua cittadinanza pluriversa, della sua erre arrotolata, il manifesto elettorale della necessità europea.
Credo che esista un modo per ricordarlo come a lui sarebbe piaciuto: una decina di anni fa, in occasione del 150esimo dell’Unità d’Italia, Philippe fondò un movimento che volle chiamare “Save Italy”, che ha come missione quella di sensibilizzare italiani e non italiani – “perché il patrimonio culturale italiano appartiene all’umanità intera”- all’adozione di azioni concrete per la tutela e la valorizzazione dell’immensa eredità artistica del nostro Paese. Ecco, credo che avrebbe senso riprendere la sua battaglia facendo vivere “Save Italy”. La battaglia di una vita spesa bene: con stile e con quel filino di dandismo ancora più esaltato dal sorriso sornione di un grande signore. Non italiano, non francese, non tedesco, ma solo europeo.