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De Rita, la Chiesa, la sinodalità e il coraggio di osare

È nuovamente il tempo di una Chiesa che sappia osare, cioè di una Chiesa sinodale, Chiesa in uscita. Appare questo il punto attorno a cui ruota la lunga intervista concessa dal fondatore del Censis, il professor Giuseppe De Rita, al direttore de La Civiltà Cattolica, padre Antonio Spadaro e che ricorda le tappe fondamentali degli anni Settanta, prima del rinserramento dei ranghi sopraggiunto nei due decenni successivi.

Al centro del colloquio ci sono due grandi convegni ecclesiali, a partire da quello sui mali di Roma. “Avuto il via libera, il gruppo di lavoro si dedicò a sviluppare un programma volto all’audace obiettivo di una grande mobilitazione collettiva. Non poteva e non doveva essere un ‘convegnetto’ di studi, come ce ne sono centinaia ogni anno in ogni realtà ecclesiale, ma doveva puntare a far parlare la gente – più che parlare a essa –, attraverso una tensione a ‘ragionare con la moltitudine’. Per fare questo, abbiamo percorso due strade. Innanzitutto, chiamare la gente a partecipare, usando il massimo appeal possibile: riunirci non in una qualunque sala convegni, ma ‘in cattedrale’. Tutti a San Giovanni, in una basilica riempita da 6.000 persone, tutte consapevoli dell’eccezionalità del fatto. Inoltre, pensammo che non ci si dovesse comunque fermare alla presenza massiccia nella basilica: le migliaia di persone presenti dovevano essere messe nelle condizioni, fin dal pomeriggio, di poter esprimere le proprie opinioni e convinzioni”.

Forse è l’orizzonte dell’imminente enciclica sulla fratellanza quello giusto per capire questa lunga intervista.  Tutto sommato il cammino post-conciliare sul quale il testo si concentra, quello avviato con il grande ecclesiale sui mali di Roma del 1974 e poi proseguito con il convegno ecclesiale del 1976, è quello di una Chiesa sinodale perché in uscita, interessata tanto alla promozione umana che all’evangelizzazione. Infatti il professor De Rita osserva: “Se mi è permesso, credo fermamente che la maggiore criticità fra quelle indicate sia venuta dalla tendenza a chiudersi nel recinto del mondo cattolico – i preti e la loro ‘gente’ – senza avere il senso della complessità esterna, concentrandosi ad ‘affermare’ (verità, valori, intenti, indicazioni programmatiche), senza mai avere il coraggio di entrare nella dialettica sociale quotidiana, mediandone aspettative e conflitti”.

Dunque il professor De Rita ricostruisce un cammino, quello degli anni Settanta, a partire dal grande convegno sui mali di Roma. Scelta tanto inusuale quanto coraggiosa, cioè di una Chiesa che sapeva osare, come oserebbe una Chiesa capace di promuovere oggi un sinodo italiano. Ma allora osò su un terreno delicatissimo, quasi minato, come quello della capitale e dei suoi mali. De Rita esordisce ricordando il coraggio del cardinal vicario del tempo, il cardinale Poletti, che puntò tutto su un gruppo promotore eterogeneo. Ma quello fu un punto di arrivo, il cammino era cominciato prima.

Afferma De Rita: “A distanza di tempo, e pensando al rinserramento degli anni Ottanta e Novanta, quella spinta alla mobilitazione collettiva appare un’eccezione ‘epocale’, qualcosa di anomalo rispetto al tran tran quotidiano della vita ecclesiale, e anche rispetto all’appariscente politica ecclesiastica sui cosiddetti ‘valori non negoziabili’. Eppure non era un’eccezione, anzi quella mobilitazione collettiva era coerente con una società italiana, quella degli anni Settanta, che era piena di tensioni, contraddizioni, conflitti sociali e dialettiche culturali. In un clima che imponeva ai vari soggetti – individuali e collettivi – l’imperativo di osare, pur di non restare nell’irrilevanza della mediocrità. Sono gli anni dell’esplosione della piccola impresa, dei distretti industriali, dei consumi di qualità, dell’avvio della stagione del made in Italy. E anche – è bene ricordarlo – gli anni di una conflittualità diffusa, sia sindacale – ricordiamo gli autunni caldi – sia di piazza.

In questa società che cambiava, come si poneva la Chiesa di quel tempo?

Quando mi misi al lavoro per la preparazione del Convegno, dentro l’ambiguità difficile di quella società, vedevo serpeggiare nella Chiesa italiana un’inarrestabile tendenza al masochismo, che assumeva prevalentemente due connotazioni: la prima, quella di una Chiesa che andava al macello, sbagliando più o meno coscientemente tutte le sortite pubbliche con una baldanza di atteggiamento che definivo ‘fanfaniana’ e che contrastava con la problematicità un po’ angosciata che filtrava dalla Santa Sede. La seconda forma di masochismo erano le catacombe minoritarie delle riaffermazioni di principio, delle testimonianze, dei richiami teologici, delle obbedienze, delle comunioni ecclesiali con i superiori, con atteggiamenti di fanatismo di difesa, di quadrato, senza grinta di conquista e di futuro, senza speranza, potrei dire.

Ecco, questo mi sembra fosse il punto emotivamente più evidente: la mancanza quasi assoluta del senso del futuro e della speranza: mancanza stravolgente per la Chiesa che, se vive di storia e tradizione, ancor più vive, o dovrebbe vivere, di futuro e di speranza”.

Il suo racconto prosegue ricordando il pessimismo che serpeggiava in una Chiesa post-conciliare sì, ma ancora intrisa di testimonianza fatta con le parole, non con l’impegno e le opere. “Il coraggio di osare fu, a mio personale ricordo, tutto del cardinale Poletti, fin dal primo passo, quello della scelta del Comitato organizzatore. In origine, il Convegno doveva essere un appuntamento quasi di routine, giacché era previsto come un incontro indetto dal Servizio degli assistenti sociali del Pontefice, dedicato alle povertà relazionali della città. Il cardinale Poletti nominò invece un gruppo di lavoro del tutto incoerente con una tale impostazione: con lui e il vescovo ausiliare, mons. Giulio Salimei, c’erano don Luigi Di Liegro, il prototipo di quello che sarebbe stato definito ‘prete di strada’; don Clemente Riva, un rosminiano noto per il suo lavoro sulle ‘cinque piaghe della Chiesa’; Luciano Tavazza, grande animatore degli ambienti del volontariato sia romano sia nazionale; e il sottoscritto, segretario del Censis e imprenditore privato nel campo della ricerca sociale”.

Qui i ricordi toccano le reazioni della Dc romana e del Vaticano: “La cosa fu subito malvista dalla Democrazia cristiana romana e dagli ambienti vaticani meno vicini a Poletti, accusato di uscire dai canoni tradizionali degli incontri ecclesiali, e con referenti lontani da quelli abituali. Ma il Cardinale difese con forza e abilità l’impostazione data dal gruppo di lavoro. Ricordo un aneddoto poco conosciuto: quando Poletti presentò il programma a Paolo VI, questi sollevò dei dubbi sui gestori dell’iniziativa – ‘Riva, so bene chi sia; ma questo De Rita, da dove viene?’ –, e l’astuto Poletti usò una risposta che non permetteva replica: ‘È padre di otto figli’”.

A questa grande iniziativa romana seguì infatti quella italiana del 1976: “La volontà di esprimere una dimensione corale del Convegno non si limitò soltanto alla decisione di fare in modo che nessuna diocesi fosse esclusa, ma si realizzò con la decisione di preparare il Convegno con tanti ‘pre-convegni’ diocesani, dove mettere a fuoco, da un lato, i problemi socioeconomici e pastorali delle varie realtà locali e, dall’altro, gli stimoli di approfondimento da ‘portare’ alla discussione assembleare. Si può dire che non ci fu diocesi italiana che non organizzò un pre-convegno, spesso di grande spessore culturale. E il lavoro fatto in periferia fu poi condensato in un documento di sintesi, curato da mons. Giovanni Nervo e da Achille Ardigò, che fu anche illustrato in assemblea”. Purtroppo però la “spinta propulsiva” del papato di Paolo VI era prossima all’esaurirsi, la Cei priva di sufficiente carburante per una alimentazione autonoma, e il convegno ecclesiale non produsse gli effetti sperati.

Era in arrivo il tempo del nuovo presidente della Cei, l’epoca di Camillo Ruini, che De Rita presenta così: “Ricordo, in proposito, la frase che mi disse un giorno – non a brutto muso, perché non è il tipo, ma con decisione –: ‘De Rita, si renda conto che noi – intendeva: preti, vescovi, comunità ecclesiali – siamo qui non per cambiare la società, ma per predicare il Vangelo’. È la frase che spiega bene la fine di un periodo, di quegli anni Settanta in cui la Chiesa ebbe il coraggio di osare”.

In conclusione De Rita, pensando all’oggi ricordando il passato, osserva con grande visione: “Non ci salveranno ambizioni progressiste, ma rituali; e non ci preserverà dal maligno il rinserramento nella deresponsabilizzata delega ai nostri vertici. Solo il vigore delle diverse realtà socioculturali, da troppo tempo in letargo, può chiamare le Chiese che vivono in Italia a farsi loro carico del faticoso cammino che dobbiamo intraprendere. E mi permetto di dire che quel vigore può essere chiamato a esprimersi nel richiamo a osare, a fare storia di ‘promozione umana’ e di risposta alle attese di giustizia delle nostre singole comunità ecclesiali”.



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