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Droni (turchi) e carri armati. La guerra in Nagorno Karabakh secondo Crippa (CeSI)

In Nagorno Karabakh è guerra vera. Tra artiglieria pesante, mezzi corazzati e sistemi di anti-aerea, a fare la differenza potrebbero essere i droni Bayraktar forniti all’Azerbaijan dalla Turchia. Alle prese con una grave crisi economica interna, Ankara ha cambiato atteggiamento rispetto al passato e potrebbe spingere per l’escalation nel Caucaso meridionale. Parola di Paolo Crippa, analista del desk Difesa e sicurezza del Centro studi internazionali (CeSI), che Formiche.net ha raggiunto per commentare gli scontri tra le forze armene e l’Azerbaijan sulla regione contesa del Nagorno Karabakh.

Com’è la situazione? Che idea si è fatto degli scontri?

Occorre fare una premessa: è difficile distinguere le informazioni sulla situazione. La copertura mediatica è insufficiente. Il posto è remoto e difficile da raggiungere e l’Azerbaijan non ha concesso a nessuno di coprire, se non all’agenzia turca Anadolu. L’escalation in ogni caso sembra forte. Se fino a ieri sera sembrava che la situazione si fosse cristallizzata con le rispettive offensive respinte, tra la notte e la mattina sembrerebbe che le forze azere siano riuscite quasi a raggiungere i confini armeni e che scontri siano ancora in corso. Se gli azeri si spingono fino all’Armenia, la situazione potrebbe davvero evolvere in un conflitto molto più ampio.

Ci spieghi meglio.

È già guerra vera, ma finora il conflitto è stato localizzato nell’area contesa. Se si sposta al confine, sale di livello. Inoltre, fino ad adesso sono state escluse le componenti aerei, se non per supporto alle componenti corazzate. Non è ancora stato riportato l’uso di aerei da caccia per bombardamenti, anche se entrambi hanno velivolo Sukhoi e Mig di terza e quarta generazione.

È invece stato riportato l’utilizzo dei droni turchi Bayraktar a supporto delle forze dell’Azerbaijan. L’impressione è che rispetto al passato la situazione possa peggiorare per i nuovi assetti coinvolti. È così?

Sì. Uno dei fondamentali game changer di questo conflitto è l’uso di droni. Sul confine dell’auto-proclamato Stato del Nagorno Karabakh ci sono trincee simili a quelle sul Carso durante la prima Guerra mondiale. Le forze locali ricevono supporto dall’Armenia, che non è certo una potenza militare. Il conflitto è cristallizzato con un continuo logoramento. Gli armeni hanno batterie di anti-aerea di derivazione sovietica, fortificazioni corazzate e missili anti-carro: tutto ciò che serve per rallentare un’eventuale avanzata azera. Negli scontri di questi giorni, a un certo punto gli armeni si sono visti arrivare dall’alto droni tattici di buon livello, tra cui soprattutto i Bayraktar turchi. Non avevano sistemi per individuarli. Ci sono filmati del ministero della Difesa azera in cui questi droni mettono fuori uso le difese anti-aeree delle forze armene.

Un salto qualitativo.

Certo. Cambia il modo di intendere il conflitto. Armenia e Azerbaijan erano rimasti al concetto di scontro sulle piane tipico della Guerra fredda, puntando soprattutto sul ricorso a carri armati e mezzi corazzati sovietici T-72 e T-90. Si tratta di assetti facilmente preda di droni come quelli turchi, agili seppur a basso costo, difficilmente individuabili e capaci di sganciare bombe intelligenti o missili simili ai nostri hellfire.

Fino a poco tempo fa tali tecnologie sembravano a uso esclusivo di grandi potenze, per interventi chirurgici o a basso rischio. Lo scorso anno ha fatto notizia l’attacco agli impianti petroliferi da parte di ribelli Houthi con droni. Sta cambiando la situazione?

Sì, anche se pure in questo caso bisogna fare una premessa: prima di vedere chi utilizza i droni, occorre considerare chi li fornisce. Li hanno inventati e utilizzati per primi gli Stati Uniti, ormai vent’anni fa tra Balcani, Afghanistan e in Iraq, con un uso sempre più estensivo in un momento in cui nessuno operava tali sistemi. Così, parte di un cospicuo arsenale, i droni conferivano alle forze americane una superiorità tecnologica, se non addirittura una dominance.

E poi?

Poi sono venuti fuori piano piano altri produttori. Al momento i Paesi che realizzano droni tattici combat sono pochi: oltre agli Usa, l’Iran, la Turchia e la Cina. L’Iran non li vende, ma li usa e li fornisce alla galassia di milizie sciite impegnate in Medio Oriente. La Cina invece li vende a tutti gli Stati che li richiedono, sostanzialmente a tutti quelli a cui gli Stati Uniti non vogliono venderli. Gli Usa vendono Predator e Reaper solo agli alleati più stretti, e non facilmente. Hanno ad esempio venduto ad alcuni Paesi del Golfo la loro versione non armata, tanto che gli stessi Paesi hanno acquistato droni cinesi, che ormai si vedono un po’ ovunque in Medio Oriente.

La Turchia?

Va considerata come un player quasi europeo, con un ascendente su tutto il Mediterraneo allargato. La Turchia ha sviluppato la famiglia di droni Bayraktar che costa poco, è efficace e può portare carichi paganti interessanti come appunto bombe intelligenti. Li ha utilizzati in Siria, in Libia estensivamente, in Iraq contro i curdi del Pkk e ora in Azerbaijan.

Un trend destinato a crescere?

Sì. I droni tattici costano meno di un caccia e hanno un’impronta militare più leggere rispetto ad attacchi con altri velivoli militari. Credo che il trend generale del prossimo futuro sia una proliferazione di tali sistemi, dato che permettono alta letalità anche a medie potenze in ascesa, Stati come quelli mediorientali che hanno budget limitati ma sono impegnati in conflitti a bassa/media intensità. Dunque, se prima c’era solo un attore tecnologicamente dominante, adesso vediamo molti attori con capacità di questo tipo.

Torniamo al Nagorno Karabakh. L’impressione (come sostenuto da Nona Mikhelidze) è che rispetto a episodi del passato la differenza la possa fare la Turchia, quasi imprevedibile. Ha la stessa impressione?

Sì. Rilevo che mentre tutti chiedono un cessate-il-fuoco (anche la Russia, come di consueto, si è mostrata cauta e moderata nella disponibilità di supporto all’Armenia), le uniche dichiarazioni non in linea siano quelle turche. Ankara ha dichiarato che starà “fino alla fine” a fianco di Baku. Sembrerebbe dunque spingere per un’escalation ascendente.

Perché?

Potrebbe essere parte di un disegno strategico. Come è evidente su Libia, Siria e Mediterraneo, la Turchia ha adottato una nuova postura internazionale. Probabilmente ritiene di poter ottenere di più in caso di escalation nel Caucaso. Secondo me, in un momento di grave crisi e di fragilità economica e monetaria, la Turchia vede possibile dall’Azerbaijan (Paese ricco di risorse idrocarburiche e dotato di ampia liquidità) un ghiotto bottino in cambio del supporto sul Nagorno Karabakh.

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