I continui riferimenti che papa Francesco fa per sanare eticamente e praticamente quella che chiama “economia che uccide” (EG, 53), non sempre trovano grande accoglienza all’interno delle comunità cattoliche. Sappiamo che negli ultimi tempi sono cresciute le domande sull’operato dei credenti, sulle loro strutture di religiosità popolare o di accoglienza per immigrati, su convenzioni e rapporti con le istituzioni pubbliche, su utilizzo e gestione delle risorse economiche. Le critiche sono tante, di diversa natura e intenzioni: un po’ ovunque crescono preoccupazioni e dubbi sulle prassi di alcuni pastori e strutture cattoliche che non sempre sono ispirate dai criteri evangelici di bene comune, giustizia, pace e tutela degli ultimi; su rapporti con il potere politico poco profetici, forse perché attenti ad accordi preferenziali e a trattamenti di favore e privilegi economici.
Nel messaggio per l’incontro di Cernobbio il papa ha affermato: “In questa situazione l’economia, nel suo senso umanistico di ‘legge della casa del mondo’, è un campo privilegiato per il suo stretto legame con le situazioni reali e concrete di ogni uomo e di ogni donna. Essa può diventare espressione di ‘cura’, che non esclude ma include, non mortifica ma vivifica, non sacrifica la dignità dell’uomo agli idoli della finanza, non genera violenza e disuguaglianza, non usa il denaro per dominare ma per servire (EG, 53-60). L’autentico profitto, infatti, consiste in una ricchezza a cui tutti possano accedere. Ciò che possiedo veramente è ciò che so donare”.
La domanda allora è: tutte le attività economiche della sede apostolica, di diocesi, parrocchie, ordini religiosi, istituzioni cattoliche sono espressione di cure per i poveri, gli immigrati? Mortificano o vivificano, specie gli ultimi?
Riguardo al denaro (risorse interne, finanziamenti pubblici, sponsor per feste patronali, congressi e quant’altro, gestione dei beni ecclesiastici) si ha alcune volte l’impressione che la logica capitalistica del profitto ad ogni costo si sia radicata anche in alcuni settori ecclesiali. Da sempre il magistero cattolico ha ricordato che, nella Chiesa, ogni risorsa economica è dei e per i poveri. Consegue che la loro amministrazione non deve seguire i principi liberistici e manageriali, quanto quelli della destinazione universale delle risorse con una “carità al di sopra di ogni sospetto” (AA, 8).
L’ampiezza e la delicatezza di questi due problemi impongono a tutti il ritorno al discernimento serio (che il papa ha anche richiamato nel suo messaggio) ed al confronto comunitario perché la testimonianza ecclesiale non sia offuscata da singoli episodi poco evangelici. Consigli pastorali e per gli affari economici, associazioni, gruppi e movimenti ecclesiali sono i luoghi in cui la discussione va affrontata per rinnovare le varie attività. Chi evita o mette a tacere la critica corretta e motivata mostra di avere altri interessi rispetto a ciò che è l’essenza della missione di Gesù Cristo affidata ai suoi discepoli.
Le vicende del movimento cattolico conoscono tantissime pagine di impegno sociale e politico, come nella promozione del lavoro (cooperative, consorzi, imprese giovanili, volontariato organizzato, ecc.). Storia ricchissima di luci come di ombre, storia che si ripete spesso nella sua vitale fecondità di fede e di carità, ma anche nella sua mancanza di coerenza e di legalità, di onestà e di correttezza.
Il tutto si potrebbe sinteticamente ridurre ad una domanda: i cattolici, singoli o organizzati che siano, quando promuovono cooperative e aziende di servizi e produzione sono coerenti con il loro credo e rispettosi delle leggi di questo Stato? Non so quantificare il no, ma per esperienza posso dire che le tentazioni (e le pratiche conseguenti) disoneste e deleterie sono tante. Esse scaturiscono da diverse motivazioni fondamentali: una profonda frattura tra fede e vita, una visione morale ridotta all’esclusiva sfera familiare e sessuale, una visione di Chiesa non come sale e luce della terra (Mt. 5), ma come padrona di questa in termini di potere e di lavoro, uno scarsissimo senso della legalità e dello Stato, un attaccamento demoniaco al potere e al denaro, una pratica socio-politica machiavellica. Si arriva, in alcuni casi, a ecclesiastici o laici impegnati che provano persino un senso di fastidio spocchioso quando devono rispondere, del loro operato, alla leggi di “Cesare”.
Il tutto con conseguenze molto forti in termini di testimonianza cristiana: credenti che abbandonano, scandalizzati e disgustati, la pratica cristiana – come ha ricordato ultimamente il testo di Franco Garelli – perché hanno scoperto nella Chiesa gli stessi errori e ambiguità tipici di altre realtà in crisi, come istituzioni politiche, partiti, aggregazioni varie.
Eppure la comunità cristiana voluta dal Suo fondatore e rinnovatasi nello spirito del Vaticano II non è assolutamente questa. Va detto, senza ipocrisia, che i cattolici che fanno affari spregiudicati e illegali in nome della fede e servendosi di essa e della comunità cristiana, non sono cattolici, perché sono i primi a dimostrare che tra Dio e il denaro hanno scelto il secondo. “Nessuno può servire a due padroni: o odierà l’uno e amerà l’altro, o preferirà l’uno e disprezzerà l’altro: non potete servire a Dio e a mammona” (Mt. 6, 24).
Va aggiunto che questi soggetti hanno anche precise responsabilità educative nei confronti dei giovani coinvolti in associazioni, movimenti, cooperative ed attività produttive. I giovani, la coerenza e la legalità, devono impararle non solo in famiglia e a scuola, ma anche in momenti cruciali quali quelli dell’inserimento nella società e della ricerca del lavoro: saranno questi adulti spregiudicati e affaristi ad insegnargliele?
Restano ancora molto attuali le parole di Ilario di Poitiers e possono essere un buon testo di discernimento per pastori e fedeli: “Noi non abbiamo più un imperatore anticristiano che ci perseguita, ma dobbiamo lottare contro un persecutore ancora più insidioso, un nemico che lusinga; non ci flagella la schiena ma ci accarezza il ventre; non ci confisca i beni (dandoci così la vita), ma ci arricchisce per darci la morte; non ci spinge verso la libertà mettendoci in carcere, ma verso la schiavitù invitandoci e onorandoci nel palazzo; non ci colpisce il corpo, ma prende possesso del cuore; non ci taglia la testa con la spada, ma ci uccide l’anima con il denaro, il potere, il successo, i primi posti nella nostra società”.