Con spirito di concretezza, Francesco Bechis ha messo bene in luce il significato della commemorazione, svolta ieri a Palazzo Borromeo, Sede dell’Ambasciata d’Italia presso la Santa Sede, del tanto celebrato, e giustamente, Accordo di Helsinki a 45 anni dalla sua sottoscrizione. È utile fare ancora qualche rapida osservazione. L’Accordo infatti rappresentò, dopo molti anni, il ritorno della Santa Sede nel consesso della diplomazia internazionale. In particolare, la firma dell’Atto finale (1975) non sarebbe avvenuta senza l’accelerazione politica impressa dall’allora Capo del governo italiano, Aldo Moro, anche in forza del suo ruolo di Presidente di turno, in quel momento, della Comunità europea.
L’Accordo, cui aderirono 35 delegazioni nazionali, vide l’Europa in primo piano: di tutti gli Stati aventi territorio nel Vecchio Continente, solo due (Andorra e Albania) decisero di sottrarsi. Quindi, non solo la Comunità (CEE) ma l’intera Europa, senza confini tra est ed ovest, assumeva mediante questa iniziativa un profilo politico unitario. In un certo senso, le conclusioni della Conferenza di Helsinki andarono a formare nel tempo avvenire, dopo la caduta del Muro di Berlino, le coordinate essenziali del futuro processo di allargamento dell’Europa. Grazie alla politica dei diritti umani, accolta anche dall’Unione Sovietica – non fu essa a volere la Conferenza – in cambio della celebrazione del principio di non ingerenza tra gli Stati, le rigide barriere della Guerra Fredda iniziarono a cedere a beneficio della pace e della cooperazione dei popoli.
La commemorazione di ieri è stata anche l’occasione per ricordare una straordinaria figura di prelato, il Card. Achille Silvestrini, fine interprete e protagonista della diplomazia vaticana sotto la regia del Cardinale Segretario di Stato, Agostino Casaroli. Lo hanno ricordato sia il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, sia l’attuale Segretario di Stato, Card. Pietro Parolin. Questi, del resto, è considerato oggi il più autorevole discepolo di Silvestrini. In proposito, si può rintracciare una linea di continuità che esalta la vocazione universalistica della scuola diplomatica vaticana, specie se da essa scaturisce, proprio in questa fase storica della Chiesa e del mondo, una rinnovata Ostpolitik dai risvolti ancor più ampi e dunque, per certi aspetti, più complessi.
L’ostpolitik con Parolin s’incarna nell’apertura alla Cina. Orbene, la commemorazione è servita ad annunciare, in uno scampolo di conversazione pubblica a fine lavori, la conferma – ad experimentum per altri due anni – dell’intesa con Pechino sulla nomina dei Vescovi. Parolin non nasconde le difficoltà perché conosce le resistenze e le obiezioni, non solo dentro la Chiesa. “In questi due anni – ha precisato in una intervista a “Il Messaggero” – ci sono stati problemi, tuttavia è stata impressa una direzione importante che vale la pena perseguire. Penso che il discorso della collaborazione valga sempre – ha poi aggiunto – in qualunque epica storica e anche nei confronti di un grande paese come la Cina”. Parole, queste, che hanno evidentemente il loro peso.
La politica estera vaticana incrocia, vuoi o non vuoi, le evoluzioni della strategia diplomatica e militare degli Stati Uniti. Una conferma della Presidenza Trump avrebbe un riflesso di gran lunga negativo sull’investimento che la Santa Sede ha fatto al tavolo della cooperazione con le autorità cinesi. Diverso sarebbe se martedì 3 novembre a vincere fosse Biden, il candidato democratico. In ogni caso, la scelta di firmare ad ottobre, senza quindi alcuna deroga alla scadenza, attesta come la Santa Sede nutra la speranza di un cambio di scenario politico a Washington. Vero è, in ultimo, che le elezioni americane si caricano, mai come stavolta, di un significato che va oltre il normale avvicendamento di potere alla Casa Bianca. Anche l’Italia registrerà l’onda di ritorno delle elezioni americane. La Conferenza di Helsinki è lontana, ma lo spirito che aleggiava su di essa torna a soffiare sulle vele della politica di pace e di progresso, contro qualsiasi rigurgito di unilateralismo vetero imperiale.
P.S. Di Bechis non condivido, caro Direttore, l’idea che l’appello di Parolin alle urne sia un contributo indiretto al Si. Gli analisti sostengono, in realtà, che un’alta affluenza avvantaggerebbe il No. Tuttavia, anche se così fosse, sarebbe egualmente sbagliato un uso partigiano delle parole del Cardinale. Ciò non toglie che io mi auguri – me lo consenta – un netto successo del No al referendum.