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Inchiesta su Navalny? Anche no. Così Putin smentisce Conte (di nuovo)

Non prende bene il telefono fra Roma e Mosca. Deve essere per forza così, altrimenti non si spiega la secca smentita di Dimitri Peskov, portavoce del presidente russo Vladimir Putin, del premier italiano Giuseppe Conte. Non ci sarà neanche l’ombra di una commissione d’inchiesta sull’avvelenamento di Alexei Navalny, l’oppositore di Putin ricoverato in Germania dopo aver ingerito del gas Novichok, ha detto l’alto funzionario del Cremlino.

Il portavoce in conferenza stampa si è affrettato a smentire quanto ha assicurato Conte in un’intervista al Foglio, dove ha spiegato come il presidente russo gli abbia garantito di persona che “la Russia è intenzionata a chiarire l’accaduto”, “avrebbe costituito una Commissione di inchiesta” e che si è detto pronto a “collaborare con le autorità tedesche”.

“Non escludo che ci possa essere stato un equivoco” ha detto Peskov alla stampa un po’ imbarazzato questo giovedì. “La situazione del paziente berlinese è stata effettivamente toccata” nella telefonata, ha precisato. E però non è mai stata chiamata in causa una commissione d’inchiesta come ha detto Conte, perché “non vi sono le basi giuridiche” per farlo. Dopotutto, ha chiosato Peskov, “una pre-inchiesta è in corso da un bel po’ di tempo”.

Insomma, per Mosca si è trattato solo di un malinteso di Palazzo Chigi, e l’inchiesta per cercare gli attentatori di Navalny rimarrà fra i buoni propositi (italiani). Non è la prima volta che le feluche russe smentiscono apertamente, o danno una versione opposta, di quella fornita dalle autorità italiane.

Proprio la telefonata in questione fra Conte e Putin, aveva svelato Formiche.net, era stata resa pubblica, non a caso, con due versioni agli antipodi. Se il comunicato della presidenza del Consiglio si limitava infatti a elencare gli argomenti trattati, fra cui il “caso Navalny”, quello in cirillico del Cremlino si spingeva ben oltre.

Precisava in apertura che la chiamata nasceva “su iniziativa della parte italiana”, e chiariva a scanso di equivoci che l’Europa doveva farsi i fatti propri sulla crisi in Bielorussia, ribadendo “qualsiasi tentativo di interferire negli affari interni della Repubblica”. E su Navalny, “l’inammissibilità di accuse frettolose e infondate al riguardo e l’interesse per un’indagine approfondita e obiettiva di tutte le circostanze dell’incidente”.

Allo scarno comunicato di Palazzo Chigi aveva fatto seguito, due giorni dopo, quello della Farnesina sulla chiamata di Luigi Di Maio con il suo omologo bielorusso Vladimir Makei. Il ministro non usava i guanti. Chiedeva “elezioni libere ed eque”, “la liberazione dei prigionieri politici”, e di riconoscere “le legittime aspirazioni dei cittadini bielorussi”. Una posizione ribadita, senza mezzi termini, in una recente intervista a Formiche.net, quando alle richieste ha aggiunto “l’archiviazione dei procedimenti penali contro l’opposizione”.

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