Il Libano, l’esplosione al porto che ha fatto esplodere il Paese, la crisi economica, politica e sociale, i profughi siriani e il conflitto appena oltre confine. Il Levante, sponda orientale del bacino chiuso del Mediterraneo, attraversa da anni difficoltà profonde. “In una momento come questo, così critico e delicato, credo che siano possibili soltanto messaggi forti, molto chiari e molto nuovi: le vecchie soluzioni non funzionano più di certo, ammesso abbiano mai funzionato”, spiega a Formiche.net Alberto Capannini, volontario dell’Operazione Colomba della Comunità Papa Giovanni XXIII.
L’associazione cattolica è un pezzo d’Italia all’interno di una delle aree più critiche del mondo: i volontari come Capannini sono presenti da molti anni al fianco dei tanti profughi siriani in Libano – su una popolazione di circa sei milioni, circa 1,5 milioni sono arrivati dalla Siria, scappando da guerra e disperazione, accolti in campi dove le situazioni sono rapidamente peggiorate e ora aggravate dalla diffusione del coronavirus pandemico. La Comunità aiuta queste persone, ormai da anni parti della società civile libanese: li accompagna nei campi, li aiuta a gestire eventuali necessità (anche sanitarie), ha attivato nel tempo dei corridoi umanitari. Li aiuta a spingere tra le istituzioni globali una proposta di pace che i profughi stessi hanno avanzato alla Comunità internazionale, dai governi europei alle Nazioni Unite alla Santa Sede.
Un pezzo d’Italia che il premier Giuseppe Conte troverà oggi, giorno della sua visita a Beirut; insieme alle attività di tanti altri italiani in Libano e al contingente che guida le operazioni onusiane Unifil di controllo al deconflincting lungo il confine israeliano. Qual è la situazione nel Paese? “Come noto, da settembre dello scorso anno in Libano sono iniziate le proteste: giovani che sono scesi in strada per contestare il sistema politico. La situazione non è cambiata, è molto critica, e l’esplosione al porto del 4 agosto ha praticamente prodotto una spaccatura incolmabile tra le persone, le collettività libanesi, e la leadership”.
Capannini racconta che lui e altri volontari si sono spostati dai campi di Tel Abbas, a 5 chilometri dal confine siriano (dove opera Operazione Colomba) a Beirut proprio nei giorni successivi all’enorme deflagrazione del deposito di nitrato di ammonio: l’evento che ha distrutto il porto e metà del territorio della capitale, e che ha esposto pubblicamente tutte le debolezze del Paese (il sistema politico che non controlla il territorio, o meglio lo controlla solo per interesse; la corruzione, l’incuria, le separazioni sociali). “L’esplosione è stato l’atto definitivo. Noi abbiamo rapporti con le persone che hanno animato le proteste anti-governative e tramite quelle abbiamo cercato di aiutare coloro che per l’incidente erano rimasti senza casa. Parlando con quei cittadini, si percepiva un punto chiaro: i partiti portano dolore, e l’esplosione del porto ne è diventato il simbolo dei simboli”.
La leadership è distante dalle masse, s’è auto-riprodotta negli anni e ha tutelato i propri interessi e i propri centri di potere, mentre per i libanesi la crisi economica morde, “e in questo sistema, chiaramente i profughi siriani sono l’ultimo anello della catena”, aggiunge Capannini. Com’è percepita la presenza di immigrati? “Precedentemente ci sono stati politici che hanno provato ad addossare all’immigrazione le colpe per la pessima situazione economica, ma tra le persone che protestano contro il sistema questa scusa attualmente non regge affatto. La realtà di chi manifesta è diversa: loro non ce l’hanno di certo con i profughi, anche perché vedono che molti degli aiuti che la Comunità internazionale invia in Libano da tempo per gestire la situazione migratoria non arrivano ai campi, ossia ai profughi, ma finiscono nelle casse dei partiti e dei notabili dei partiti”.
Per la Comunità Papa Giovanni XXIII le risposte alla situazione in Libano e in Siria devono essere “mondiali”, aggettivo proprio di papa Bergoglio: “Non è possibile che il Libano si trovi più o meno solo nell’affrontare il fall out della guerra civile siriana”, una delle più devastanti crisi umanitarie (e geopolitiche) della storia recente. Cosa è mancato da parte della Comunità internazionale? Cosa poteva fare, per esempio, l’Europa? “Quando noi presentiamo la nostra proposta di pace agli organismi e ai governi europei – spiega Capannini – spesso ci troviamo a dire ‘se l’Europa non serve ad ascoltare la voce di profughi che vogliono tornare a casa loro, riappropriarsi delle proprie vite in un contesto pacifico, allora a cosa serve?'”.
È un messaggio semplice quanto potente, un richiamo alla natura profonda dei valori costitutivi dell’Ue, e di conseguenza al proprio destino (per certi versi simile alla richiesta avanzata dal deputato Filippo Sensi sulla Bielorussia o su Hong Kong). “Ecco, vedendo e vivendo questo genere di quotidianità, io credo che l’Europa debba riscoprire i valori su cui è stata fondata e diventare una superpotenza del dialogo. Un lavoro enorme, ma francamente non vedo nessun altro che possa farlo. È qualcosa di cruciale, perché ci siamo resi conto totalmente con la crisi siriana che non è più possibile per l’Europa guardare certe situazioni da lontano: non è possibile pensare che certe guerre si svolgano altrove e non ci interessino: è il tema alla radice del problema-migrazioni d’altronde”.
Capanni spiega che il lavoro umanitario ormai non basta, perché è una gestione emergenziale in una situazione che può prendere pesanti derive – il terrorismo jihadista e le radicalizzazioni sono una di queste, la crisi geopolitica regionale un’altra. Tornando all’attualità più stretta, la visita di Conte? “L’Italia in Libano c’è, potrebbe avere molti spazi se solo non rinunciasse a elevare il livello della propria attività politica secondo quanto dicevamo: cosa che però in questo momento io vedo fare solo a papa Francesco, francamente”.