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Diritti e sanzioni. Limiti e forze della politica estera post-Brexit di Londra

Parlando con i giornalisti durante una visita a Seul, Dominic Raab, ministro degli Esteri nel gabinetto Tory di Boris Johnson, ha bollato come “truccato” il voto presidenziale in Bielorussia e ha annunciato che Londra sanzionerà Aleksander Lukashenko e alcuni gerarchi del regime di Minsk (tra cui il figlio Viktor) per i brogli elettorali e per la repressione contro i cittadini – che seguendo la volontà di cambiamento democratico avevano votato in massa per l’opposizione e hanno proseguito dopo le elezioni a manifestare contro la privazione di libertà che l’ennesima vittoria del batka ha imposto sul Paese.

L’annuncio di Raab, che segue una reazione non certo improvvisata, delinea alcuni tratti della politica estera inglese a pochi mesi dalla Brexit definitiva. L’opposizione alla Russia, unica spalla di Minsk in questo momento, contro cui gli inglesi si sono rinfocolati dopo il caso Skripal; così come la linea atlantista, dimostrata anche in un atteggiamento severo con la Cina (vedasi la decisione di escludere Huawei dal mercato); una chiara vicinanza agli Stati Uniti, da rintracciare nelle due linee precedenti. Posizioni che spesso il Regno Unito declina sulla sfera dei diritti umani e civili.

Si ricorderà che il primo pacchetto di misure sanzionatorie deciso da Londra in maniera autonoma, ossia non nel quadro articolato e multilaterale dell’Ue, riguardava la restrizione di viaggio e operatività economica contro 49 individui responsabili di pesanti soprusi. Era inizio luglio, in mezzo c’erano 25 russi considerati tra i responsabili della morte di Sergei Leonidovich Magnitsky, un avvocato russo che aveva portato alla luce l’alto livello di corruzione nel suo Paese e che è morto nel 2009 tra le mani delle autorità di Mosca dopo undici mesi di ingiusta reclusione (a lui si deve il Magnitsky Act, la più forte legge sanzionatoria al mondo, redatta dal Congresso statunitense).

Insieme ai russi c’erano 20 funzionari sauditi, coinvolti nell’uccisione di Jamal Kashoggi, famosissimo giornalista e attivista anti-governativo attirato due anni fa con l’inganno nel consolato di Istanbul da una squadraccia dei servizi segreti sauditi e uscito letteralmente a pezzi, in tre borsoni; probabilmente eliminato perché considerato una figura scomoda dal principe ereditario. Il conto chiudeva con due gerarchi birmani accusati di aver organizzato la repressione contro la minoranza Rohingya e due compagnie accusate di gestire le torture (e gli assassinii) nei campi di prigionia nordcoreani.

Chiamata in causa direttamente, nelle settimane successive Londra sarebbe stato il primo Paese a invocare il blocco dell’estradizione per Hong Kong – finito in quei giorni d’estate sotto la scure della nuova legge sulla sicurezza nazionale, che Pechino ha imposto come la più estrema forma di controllo sulle volontà democratiche e contro le richieste di libertà e diritti dei cittadini del Porto Profumato. In quell’occasione, Downing Street comunicava anche la volontà di sanzionare i funzionari cinesi responsabili delle brutali repressioni culturali nello Xinjiang, dove il Partito/Stato ha costruito dei campi di rieducazione con cui sta cancellando l’etnia turcofona uigura e altre minoranze della regione.

Dimostrazioni di come la Global Britain intende “agire con forza per il bene del mondo”, commentava Raab – linea comune con il Dipartimento di Stato americano. Al Foreign Office è già operativa una nuova unità che ha il compito di monitorare con costanza le violazioni dei diritti umani e civili nel mondo e di indicare al governo come agire – ossia nuove sanzioni, nell’ottica di un impegno globale basato sulla difesa dei valori e diritti che fanno del Paese un simbolo dell’internazionalismo e del globalismo. C’è un limite a questa attività? Sì: l’efficacia delle sanzioni è tanto migliore quanto più applicata a schema ampio da più Paesi – ammissione del Foreign Office.

Ossia, per essere davvero funzionali le misure devono essere multilaterali: l’opposto dell’unilateralismo della Brexit, se si volesse trovare un afflato filosofico. Qui sta la questione: Londra per essere efficace dovrà necessariamente dialogare con l’Ue. Come già successo nel caso-Skripal, per esempio, quando gli inglesi chiesero misure severe contro Mosca responsabile dell’avvelenamento della spia disertrice in territorio britannico. In quell’occasione la risposta fu corale, per quello funzionale.

E dunque, è possibile che nonostante l’impegno della Global Britain, l’isola abbia davanti a sé un mare turbolento che diventa complicato navigare da sola? E però è anche altrettanto vero che questo impegno sui diritti ha un valore nella competitività. Londra riesce a decidere autonomamente e con maggiore velocità su questioni che il non-governo europeo affronta con passo rallentato anche dalle divisioni interne. Vedere come paradigma proprio il caso della Bielorussia, quando la scorsa settimana il veto di Cipro (col ricatto contro la Turchia) ha bloccato l’azione sanzionatoria di Bruxelles, mandando all’aria le misure già preparate e concordate.

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