A Beirut, per la seconda volta in poche settimane dall’esplosione del porto (e del Paese), lunedì 31 agosto è arrivato in visita ufficiale il capo dell’Eliseo, Emmanuel Macron. Era il centesimo anniversario della formazione dello Stato libanese come protettorato francese, e mentre i jet de l’Armée de l’air passavano con fumogeni rossi e bianchi sopra alla capitale, il presidente piantava un albero di cedro, simbolo del Paese e della sua “rinascita” (come ha detto Macron). Serve qualcos’altro per definire la visita simbolica? Probabilmente no, ma la valutazione necessaria a questo punto riguarda le sue capacità di esercitare reale influenza abbinata a questa costante presenza.
Nelle faccende di politica estera in generale, il francese ha da sempre spinto l’assertività di Parigi, ora con un rinnovato slancio che a cavallo del Mediterraneo si proietta fino al Libano: un’occasione, ma il caso del Paese del Levante può diventare un paradigma negativo. L’arrivo di Macron è stato accolto da un’apertura generale offerta dalle varie fazioni interne per produrre una decisione concordata sulla designazione di un nuovo premier, Mustapha Adib, a cui anche gli estremisti di Hezbollah (organizzazione politico-militare nazionalista collegata ai Pasdaran e all’Iran nell’internazionale sciita regionale) hanno accettato secondariamente di partecipare.
Ma già martedì sera, ossia il giorno in cui Macron era stato ricevuto dalla leadership libanese, i giovani libanesi sono scesi in piazza contro una decisione – quella su Adib – che sembra frutto di una mossa gattopardiana. Adib è visto come un “premier fantoccio”, spiega una fonte locale, che incorpora non solo la vecchia politica ma anche “il peso pseudo-coloniale francese”. La piazza libanese è infiammata da mesi: i giovani vogliono un futuro che il sistema confessionale e in generale il controllo del potere da Beirut in giù non permette. Detestano le influenze esterne, e sotto una certa ottica quelle francesi possono anche essere percepite in modo simile a quelle iraniane su Hezbollah.
È uno dei limiti dell’influenza di Macron sul Libano, che si somma come detto al peso del passato. “Sto investendo il mio capitale politico”, ha detto il presidente francese a Politico, ma come ha scritto Tamara Qiblawi della CNN, tra la gente di Beirut il nuovo governo libanese viene già chiamato come il “governo di Residence des Pins” – che è la residenza dell’ambasciatore francese e l’ex sede degli amministratori del mandato coloniale. “I diplomatici francesi ammettono di avere poca influenza. Macron spera di incantare e persuadere i leader libanesi a riformarsi, con la prospettiva di aiuti”, scrive l’Economist.
“Il nuovo sta facendo fatica ad emergere, e il vecchio persevera” è la citazione gramsciana uscita dalle parole di Macron che rimbalza sui media internazionali , ma la realtà – secondo osservatori che preferisco non essere citati – è che le forze politiche libanesi potrebbero proprio aver accettato una sorta di maquillage per accontentare il presidente francese, interessati più che altro agli aiuti promessi, sebbene l’intenzione reale di riformare il sistema per ora non c’è. Al problema interno, Macron si trova abbinata anche una questione evidente che arriva dall’esterno. Se Parigi sembra pronta ad accettare il percorso che gli attori libanesi offrono, anche per non perdere quel capitale politico di cui parla l’Eliseo, da Washington la linea è molto più severa.
Il punto centrale, come lanciato in aria dal segretario di Stato mercoledì, riguarda Hezbollah: il partito-milizia è visto dagli americani come una problematica regionale perché è un moltiplicatore di forza e influenza iraniana. Se la Francia potrebbe anche accettare un disarmo leggero, per gli Usa c’è una sola possibilità: la deposizione totale delle armi – argomento che per il gruppo libanese è al momento irricevibile. Sul Libano emergono due linee dunque: una francese più aperta, una americana più dura. Qualcosa di simile di quanto accade sull’Iran, dove Parigi e gli europei tendono a salvare il salvabile dell’accordo sul nucleare Jcpoa, mentre l’amministrazione Trump ne è uscita in forma unilaterale con l’intento di distruggerlo.
Non bastasse a queste due limitazioni di influenza che il francese soffre su campi interni ed esterni, ce n’è un’altra di livello regionale. Nei giorni in cui Macron era in Libano, infatti, gli israeliani hanno condotto gli ennesimi raid aerei in Siria. Si tratta di operazioni mirate che hanno il Libano come retroscenario. I caccia di Tel Aviv infatti colpiscono obiettivi precisi: gli scambi di armi con cui l’Iran intende rafforzare Hezbollah (e le milizia sciite collegate in altre parti della regione). Israele ritiene che quelle armi potrebbero essere usate contro lo Stato ebraico se il conflitto, mai pacificato, del 2006 dovesse riaccendersi. E tensioni ci sono state anche ultimamente. Attività che il governo israeliano non ha fermato nonostante la presenza del presidente francese in Libano, sintomo anche questo di una capacità di influenza relativa.