Skip to main content

Melania Trump e Kamala Harris. Se il potere sceglie le donne

È il 1939 quando la quattordicenne Isabella Verney è eletta “Miss Sorriso” vincendo una selezione fotografica (“5.000 lire per un sorriso”) promossa dal pubblicitario e artista Dino Villani, con la collaborazione dello scrittore Cesare Zavattini. Un’iniziativa, interrotta dalla guerra, che cambierà pelle nel corso degli anni.

Non solo fotografie ma donne che sfilano in passerella. Nasce Miss Italia, è il 1946. Nel 1990, la competizione abolisce le misure 90-60-90, incubo delle partecipanti. Ma non si ferma la corsa verso la bellezza. Oggi amplificata dalla globalizzazione e dai social. Rincorrere un ideale di bellezza resta un’esigenza primaria per la donna, una costruzione continua che, a volte, rimanda ad altro da sé e a qualcosa di diverso dalla propria natura. Pur di piacere e di apparire. A tutti i costi, spesso, e a prezzi elevati.

Il sorriso resta, comunque, il “complemento” essenziale di un look vincente.

Un recente articolo pubblicato sul New York Times ha osservato, con condivisibile ironia, che la mascherina, almeno, ha liberato le donne da quella “dittatura del sorriso” che sembra essere imposta, da sempre, al “gentil sesso”. Per essere accettate, riconosciute e apprezzate e corrispondere alle aspettative sociali, soprattutto maschili.

Crollata la vendita dei rossetti in tempo di Covid, restano alte le “quotazioni” del sorriso della donna. Una risorsa in grado di scardinare rancori e di affilare armi persino nella politica. Abbattendo visioni e convincimenti. In tutto il mondo. Belle, eleganti, sorridenti hanno sfilato le donne a favore di Donald Trump alla recente convention repubblicana. Affermando una sensibilità femminile capace di “guardare oltre” e di conquistare spazi sottratti alla forza, spesso arrogante, del potere. Donne che si esprimono con disarmante semplicità ma con sguardi e determinazione vincenti in un mondo maschile che sembra un po’ annaspare. Sempre con un sorriso smagliante.

Un “codice”, un messaggio di riconciliazione, il sorriso, per convincere, acquisire potere, consenso o credibilità. Se lo dice una donna o se scende in campo una donna, nell’immaginario collettivo, c’è qualcosa in cui vale la pena di credere. Dietro quel sorriso, c’è sentimento e accoglienza. C’è una “verità” tutta al femminile che seduce e attrae.

Melania Trump, ex modella slovena, 50 anni, terza moglie del presidente (dal 2005), star assoluta della scena. Da sempre lontana dalla politica, protagonista al fianco del marito nella competizione elettorale per le elezioni presidenziali di novembre. Portamento fiero, fisico da modella, outfit da “guerrigliera”. Affronta così il suo discorso alla convention. Lei che, come ha scritto il New York Times, in questi quattro anni “ha scelto di essere vista, più che sentita”, parlando attraverso i vestiti indossati e piccole sfumature nei gesti che, talvolta, hanno comunicato distanza.

Salita sul palco in una giornata simbolica, alla vigilia del centesimo anniversario dell’introduzione del XIX emendamento nella Costituzione che, il 26 agosto 1920, estese il diritto di voto alle donne.

Il discorso della First Lady, in un’America divisa, provata dalla pandemia e dagli scontri razziali, è rassicurante e pacato. Respinge la “rabbia” della kermesse elettorale scegliendo l’unità. “Non attacco i rivali perché così significherebbe dividere il Paese”.“ Mio marito Donald Trump si batte per voi, a prescindere da quello che dicono i media. Mio marito non è un politico tradizionale, gli piace agire. È una persona autentica, ci tiene, ha a cuore il futuro dell’America”, assicura, descrivendo un’immagine di persona genuina in cui poter ritrovare normalità, empatia, sicurezza.

L’attenzione per le donne è la carta vincente di Melania.

“Ho riflettuto sull’impatto delle donne nella storia della nostra nazione e quanto sono orgogliosa. Voterò di nuovo per Donald questo novembre. Dobbiamo assicurarci che le donne siano ascoltate e che il sogno americano continui a prosperare. Mentre crescevo in Slovenia che era sotto il regime comunista, ho sempre sentito parlare di un posto fantastico chiamato America: una terra che rappresentava la libertà. E quando sono cresciuta è diventato il mio obiettivo trasferirmi negli Stati Uniti e seguire il mio sogno di lavorare nell’industria della moda”.

Parla da statista, con toni capaci di far dimenticare gli insulti misogini e l’intolleranza di un presidente che sostiene, tuttavia, di “adorare” le donne. Tra proteste antirazziste, con una polizia che appare sempre più violenta, Melania ha il coraggio di dire “basta” agli scontri e ai disordini. E dice decisa: “Donald è un marito che sostiene tutto quello che faccio ed ha costruito un’amministrazione con un numero senza precedenti di donne in ruoli di leadership. Ha promosso un ambiente in cui gli americani sono sempre la priorità. Accoglie punti di vista e incoraggia a pensare fuori dagli schemi”.

La pensano diversamente altre due donne di famiglia che sferrano attacchi a Donald. Mary Trump, nipote psicologa, autrice del libro “Too Much and Never Enough” (Troppo e mai abbastanza) e la sorella Maryanne che lo descrive come “crudele, bugiardo, ipocrita e senza alcun principio”.

Melania è la donna che, di fronte allo sdegno internazionale per il provvedimento presidenziale che separava i bambini dai genitori migranti nei centri di detenzione, si è recata al confine tra Texas e Messico. “Sono venuta per ascoltare e per capire come posso aiutarvi; voglio essere certa che questi bambini siano riuniti con la loro famiglia il più velocemente possibile”, ha detto, nell’occasione, ai funzionari dell’Ursula Border Patrol Processing Center, la struttura che sorveglia il flusso dei clandestini.

Nel discorso elettorale vanno direttamente al cuore la gentilezza delle parole della First Lady, il garbo e l’eleganza dei suoi modi, il sorriso. Il pensiero rivolto alla solitudine e ai suicidi connessi all’emergenza Covid (che non definisce “virus cinese”), l’auspicio al dialogo per le famiglie e la vicinanza ai figli, chiamati ad affrontare una difficile sfida.

È la donna, la mamma, la moglie che parla.

Parla soprattutto alle donne, alle casalinghe. A quelle donne che, compatte, avevano votato Trump e che ora, secondo i sondaggi, costituirebbero per lui un “tallone d’Achille”. Alla fine, conquista. Il Presidente, commosso, la bacia. Poi, mano nella mano, verso la Casa Bianca. E, dopo Melania, tutte le donne del presidente in campo.

Kellyanne Conway, sua consigliera fino al 31 agosto (ha lasciato l’incarico per motivi personali), vestita di bianco nel colore delle suffragette, dice: “La nostra democrazia è fragile. Le donne possono salvarla”. “L’emancipazione femminile è qualcosa a cui Trump non tiene solamente a parole”. E, sul palco virtuale della convention, gli “eroi” sono le donne: “Non ci sono limiti ai sogni. Siamo un paese di pioniere, insegnanti, infermiere, imprenditrici. E abbiamo un campione in Donald J. Trump”. “Ringrazio Trump per aver dato alle donne ruoli chiave nelle imprese e nella sua amministrazione. Il presidente Trump crede nel diritto di garantire uguaglianza tra uomo e donna”.

E, contro le accuse di razzismo, ecco la fedelissima ex governatrice della Carolina del Sud ed ex ambasciatrice degli Stati Uniti alle Nazioni Unite, Nikki Haley. Vestita di rosa. “L’America non è razzista” dice, accusando i rivali di aver usato a scopo di propaganda la questione razziale in America e la brutalità della polizia, scatenando in tutto il paese la rivolta della comunità nera.

Sulla scia della First Lady, tante donne, collaboratrici del candidato Donald, testimoniano la vicinanza personale e le opportunità professionali ricevute. Per ritrarre Donald come un paladino dell’emancipazione femminile, per respingere l’immagine sessista “inventata dai media”, sottolineano. Sopra tutte, Ivanka, la figlia trentottenne del presidente, ambiziosa e attenta alla proiezione dell’immagine paterna. Bella e elegante, con toni decisi assicura: “Mio padre si batte per le famiglie, non per le élite. Lui è il difensore del buon senso, è il paladino della gente comune”.

Sul fronte dei democratici, prende corpo un altro profilo di donna. È Kamala Devi Harris (in hindi, “fiore di loto”), designata come vicepresidente dal candidato democratico Joe Biden. Figlia di un professore di economia giamaicano e di un’endocrinologa indiana di etnia Tamil, attivista dei diritti civili e ricercatrice sul cancro.

Vanta “requisiti” obiettivi di grande significato. Senatrice per lo stato della California a partire dal 2017. Nata a Oakland da madre indo-americana immigrata da Chennai e da padre di origine giamaicana, Kamala Harris ha studiato alla Howard University e all’Hastings College of the Law di San Francisco. Vice procuratore distrettuale della Contea di Alameda dal 1990 al 1998, nel 2003 è eletta procuratore distrettuale di San Francisco. Rieletta nel 2007, resta in carica fino al 2011. Nel 2010 è procuratore generale della California, rieletta nel 2014. Prima donna a ricoprire tale carica, oltre che prima figura asioamericana.

Nel 2016 si candida alle elezioni per il Senato per succedere a Barbara Boxer che aveva annunciato il suo ritiro, dopo 24 anni come senatrice. Il 7 giugno è la più votata nelle cosiddette jungle primaries della California alla quale partecipano i candidati di tutti i partiti. L’8 novembre sconfigge l’altra democratica Loretta Sanchez con il 62,5% dei voti, nelle prime elezioni senatoriali della storia della California a cui non partecipano candidati repubblicani, diventando la prima asioamericana ad essere eletta al Senato.

Grande determinazione, impegno e coraggio contraddistinguono la sua attività. Il tasso di condanna per reati gravi, con Harris, salì dal 50%, prima del suo mandato, al 76%. Le condanne per spaccio di droga dal 56% del 2003 al 74% del 2006. Dal 2004 al 2006, inflitto un tasso dell’87% di condanne per omicidio e del 90% per crimini con uso di armi.

Un curriculum impeccabile, dunque, per Kamala Harris (classe 1964), candidata ad essere vice del settantasettenne Biden. Per il Guardian, Biden potrebbe “aver trovato l’anti-Trump”, mentre il Time ha scritto che ha “consacrato Harris come la futura portabandiera di un partito in transizione”. Donna non bianca, la prima a essere mai candidata a uno dei due incarichi più importanti della politica nazionale, nel Partito Democratico degli Stati Uniti del 2020 risponde alle richieste di rappresentanza di diverse identità e sensibilità della politica americana.

“Pioniera” nella storia d”America, moderata, intenso il suo discorso di accettazione per la nomination. Con parole chiare e dirette, ricorda le battaglie delle donne per ottenere, 100 anni fa, il diritto al voto. Battaglie più dure per le afroamericane che lo ottennero molto tempo dopo: “Senza clamore né riconoscimento, si organizzarono, si mobilitarono, marciarono e lottarono, non solo per votare, ma per ottenere posto al tavolo delle decisioni. Sono loro ad averci dato, a noi che siamo venuti dopo, le opportunità di cui adesso godiamo. Aprendo la strada alla leadership pionieristica di Barack Obama e di Hillary Clinton”. E aggiunge: “Il mio impegno nasce dai valori che mi ha insegnato mia madre. E dalla visione del mondo che generazioni di americani ci hanno tramandato: la stessa che condivido con Joe Biden. La visione di una nazione dove tutti sono i benvenuti a prescindere da come appaiono, da dove vengono e chi amano. Dove possiamo non essere d”accordo su tutto, ma siamo uniti dalla certezza che la vita di ogni essere umano conta, e merita dignità e rispetto. E dove ci occupiamo gli uni degli altri, affrontiamo insieme le sfide, celebriamo insieme i trionfi”.

Accusa in maniera diretta Trump. Quattro anni di “caos”, “incompetenza” e “insensibilità”. “Abbiamo un presidente che trasforma le tragedie in armi politiche. Il fallimento della leadership di Donald Trump ci è costato vite e posti di lavoro”. Fra un anno, dice, “si spera che ci saremo lasciati il Covid alle spalle”, ma, aggiunge, “non esiste vaccino contro il razzismo”. Fautrice di politiche progressiste, tra le quali l’abolizione della pena di morte, sgravi fiscali per i più deboli e una politica sanitaria pubblica, Harris è una donna acuta, efficace, instancabile.

Bella, elegante, sorridente. Collana e tacchi a spillo sono il suo look preferito. E, soprattutto, è amata. Nella sua avvincente “normalità”.

Per il suo ultimo compleanno, in una foto postata su Twitter: “Buon compleanno! Ci sei sempre per noi con un grande abbraccio, il sorriso luminoso, la risata contagiosa, le parole giuste, il cibo delizioso e una fantastica colonna sonora. Ti amiamo tanto e siamo TANTO fieri di te”. Sono le parole dei figli e del marito di Harris, Douglas Emhoff.

Riusciranno Melania e Harris a “fare la differenza” con l’arma seducente e inclusiva del sorriso? Da donne che si rivolgono, soprattutto, alle donne? In una competizione che appare sempre più difficile per entrambi i candidati alla carica presidenziale, le donne, forse, potranno fare la differenza.



×

Iscriviti alla newsletter