A scrutini terminati, il senso complessivo di questa tornata elettorale/referendaria appare chiaro. In primo luogo viene confermato che la maggioranza di governo giallorossa non è tale nel Paese: la sinistra governa ormai soltanto 5 regioni su 20; ne ha persa un’altra – le Marche -, o meglio due se si considera la Valle d’Aosta; ne ha mantenuto con una certa fatica due. Il Movimento 5 Stelle continua a scivolare verso la disgregazione, divenendo ormai irrilevante in molti contesti locali. Il centrodestra è chiaramente maggioranza a livello nazionale.
Tuttavia, nella situazione estremamente particolare di un governo fragile e diviso che si fa forte soprattutto delle debolezze altrui, dell’emergenza Covid e di una particolare congiunzione astrale istituzionale (il semestre bianco e la prospettiva dell’elezione del Capo dello Stato), una mezza sconfitta ai punti può essere addirittura rivenduta come una mezza vittoria. Soprattutto se combinata con l’affermazione dei Sì al referendum confermativo per la riduzione dei parlamentari, che non è stata certo plebiscitaria come qualcuno pensava inizialmente per un tema tanto “facile” per la propaganda populista pentastellata, ma rappresenta comunque la prima volta che una riforma istituzionale viene sancita per via referendaria, e dunque usata dai grillini per controbilanciare psicologicamente l’evidente insuccesso elettorale delle loro liste e dei loro candidati.
Per il governo Conte bis l’alternativa era tra una tenuta, sia pur faticosa e precaria, e una batosta che avrebbe potuto destabilizzare i suoi equilibri, aprendo la strada magari non ad elezioni anticipate sempre più improbabili, ma almeno alla possibilità di una nuova maggioranza senza 5 Stelle guidata da un nuovo premier. La batosta non c’è stata, e dunque l’avvocato di Volturara Appula può continuare a resistere ad oltranza, confidando nel fatto che a nessuno dei gruppi che lo sostengono conviene aprire una crisi, perché le prospettive sarebbero per tutti peggiori, e tanto vale rimanere aggrappati ad un potere fortunosamente conquistato.
Simmetricamente, la coalizione di centrodestra ha mostrato un buono stato di salute, confermando con percentuali nettissime il potere nelle regioni in cui già governava, e aggiungendo Marche e Val d’Aosta alla sua cospicua dotazione. Tuttavia, come era successo ieri per l’Emilia-Romagna, oggi in Toscana fallisce ancora una volta il tentativo di conquistare le roccaforti storiche della sinistra – sia pur aumentando i consensi – e manca la vittoria anche in una regione come la Puglia, in cui i sondaggi davano vincente il suo candidato. Senza contare la dèbacle della Campania, in cui il sistema di potere di Vincenzo De Luca non solo non è stato scalfito, ma si è rafforzato fin quasi ad apparire un monopolio. Quindi ancora una volta la sempre tanto invocata “spallata” al governo non riesce. E anche il risultato referendario, prevedibilmente, non viene letto come una vittoria per Salvini e la Meloni che pure avevano votato la legge costituzionale e si erano schierati (tiepidamente) per il Sì, ma come un successo identitario per i 5 Stelle: benché emerga, dall’analisi dei dati, come abbiano votato Sì soprattutto proprio gli elettori di centrodestra.
L’aspetto che colpisce maggiormente, in questo scenario, è il fatto che apparentemente le forze di opposizione non sembrano aver tratto un vantaggio decisivo dalla rabbia e dalla frustrazione diffuse largamente nel Paese per la grave crisi economica innescata dall’epidemia di Covid-19, per le centinaia di migliaia di imprese fallite, per l’impennata della disoccupazione, per le prospettive buie del prossimo futuro. Il malcontento esiste, si manifesta, ma non si traduce in una bocciatura univoca e senza appello nei confronti della maggioranza di governo. Dunque evidentemente il centrodestra – ed in particolare le sue due forze oggi trainanti, Lega e FdI – non è riuscito ad accreditarsi come una alternativa in tutto e per tutto credibile all’attuale assetto governativo.
Il motivo principale di ciò, a mio avviso, sta nel fatto che Salvini, Meloni e Berlusconi non hanno mai costruito una “narrazione” – o più concretamente una piattaforma programmatica – radicalmente diversa da quella dell’esecutivo in carica, e immediatamente riconoscibile, se non forse sul tema dell’immigrazione clandestina. In particolare, essi non si sono resi conto di quanto l’emergenza Covid abbia rappresentato per la politica italiana (e non solo italiana) uno spartiacque storico. Il governo Conte bis, a partire da un certo punto della crisi sanitaria, ha deciso – per calcolo o per disperazione – di adottare una linea fortemente emergenzialistica, cavalcando la paura dei cittadini, con risultati disastrosi per l’economia, la cultura, le libertà civili. Ma l’opposizione non ha mai sfidato apertamente la maggioranza sulla legittimità e gli esiti di queste scelte, non ha mai dato veramente battaglia, non ha mai coagulato e organizzato la protesta antiemergenzialista presente nel Paese, non ha mai posto debitamente l’accento sulla necessità primaria di rilanciare produzione, consumi, terziario, arte, cultura, turismo. Insomma, è stata percepita dall’opinione pubblica come portatrice di una versione appena un po’ più complessa della stessa retorica statalista e assistenzialistica presente a sinistra, similmente a quanto successo rispetto alla linea pentastellata sulla riduzione dei parlamentari.
Le forze della destra sovranista, conservatrice, liberale, non vincono l’intera posta in gioco perché non hanno ancora imparato a parlare autorevolmente con una loro voce, ad assumere e mantenere posizioni anche radicali, a suscitare negli elettori l’aspettativa e la speranza di un futuro decisamente diverso dal presente. Se non riusciranno in fretta a ripensare la loro strategia in questo senso rischiano di essere consumate nell’attesa di un redde rationem continuamente rinviato, per essere poi scavalcate da soggetti politici nuovi, più in sintonia con l’impazienza crescente nelle parti più vivaci e sacrificate della società.