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Microchip cinesi? Arriva un altro stop dagli Stati Uniti (Huawei non gode)

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Il Pentagono e altre agenzie federali stanno valutando di inserire Semiconductor Manufacturing International Corporation (Smic) nella black list, stilata dal Dipartimento del Commercio, delle aziende accusate di avere legami stretti con il Partito Comunista cinese. Questo quanto emerge da una serie di dichiarazioni raccolte nei giorni scorsi, in prima battuta dall’agenzia Reuters. La lista ormai comprende più di 300 compagnie cinesi.

La mossa dell’amministrazione Trump costituirebbe un ulteriore passo verso il graduale decoupling da Pechino e, nello specifico, sarebbe volta a colpire la sovranità tecnologica della Cina e a mettere pressione sulle compagnie digitali cinesi – su tutte, Huawei, dal momento che Smic è tra i suoi principali fornitori. Infatti, estendendo il regime di restrizioni all’export alle compagnie americane che producono le strumentazioni più all’avanguardia per la produzione di chip, obbligandole così ad ottenere una licenza speciale, l’azienda con sede a Shanghai – la più grande fornitrice di semiconduttori nel mercato cinese – sarebbe impossibilitata di accedere alle tecnologie americane.

“Il Dipartimento della Difesa sta lavorando con le agenzie deputate per raccogliere informazioni disponibili e valutare se le iniziative di Smic ne giustifichino l’inserimento nella lista del Dipartimento del Commercio”, ha commentato un funzionario del Pentagono. “Tale iniziativa assicurerebbe che tutte le vendite a Smic siano soggette ad uno scrutinio comprensivo”. In un contesto sempre più incandescente, è dall’inizio della guerra tecnologica e dell’offensiva americana nei confronti di Huawei che Pechino sta pianificando di aumentare la spesa governativa per l’acquisto e la produzione domestica di microchip, con oltre 300 miliardi di dollari di spesa prevista per il 2020, per mitigare il rischio di eventuali interruzioni nella catena di approvvigionamento senza un’industria nazionale che possa sostenere la crescente domanda interna (la Cina è il principale importatore mondiale).

Si tratta di un altro colpo micidiale per i piani di sviluppo di una supply chain domestica di microchip per il Dragone, un settore già fortemente sbilanciato a favore di USA e Taiwan. Intel, Nvidia, Apple e Qualcomm dominano il design e il software, mentre Tsmc – ormai la principale foundry mondiale – non potrà più rifornire i suoi clienti cinesi in conseguenza delle restrizioni commerciali. Aggiungere Smic alla lista nera erigerebbe così “nuove e significative barriere allo sviluppo dei semiconduttori in Cina”, ha dichiarato Paul Triolo, analista di geo-tecnologia di Eurasia Group, presso l’emittente Cnn. Nonostante gli sforzi di Pechino, per via di un contesto sfavorevole SMIC sarà destinata a rimanere “da tre a cinque anni indietro rispetto a leader globali come Intel, Samsung e Tsmc”.

A motivare l’iniziativa l’idea che anche Smic, come altre aziende partecipate dallo Stato cinese e sotto il controllo diretto del Pcc, possa avere legami e scambi informazioni sensibili con l’Esercito Popolare di Liberazione. A confermare l’indiscrezione un rapporto dello scorso mese di Sos International, un contractor americano con sede in Virginia, rilanciato dal Wall Street Journal.

In una nota rilasciata sabato, l’azienda cinese si è dichiarata “completamente scioccata e perplessa rispetto alle notizie”, dal momento che si è sempre impegnata a “fornire servizi solamente per scopo commerciale e civile”. Inoltre, ha negato di avere “alcuna relazione con l’Esercito cinese” e che ogni speculazione a riguardo “sono dichiarazioni false e infondate”. La reazione dei mercati è stata isterica: le azioni di SMIC hanno registrato una perdita del 23% nella borsa di Hong Kong e l’11% a Shanghai, temendo ripercussioni per via della guerra tecnologica.

Non è da escludere che l’iniziativa dell’amministrazione possa urtare sensibilmente anche gli interessi delle compagnie americane. Secondo lo stesso Triolo è possibile che sanzionando Smic ciò possa comportare “un calo degli introiti delle aziende statunitensi che forniscono materiale per la fabbricazione di semiconduttori ai clienti cinesi, fiaccando i margini d’investimento [in R&D] necessari per sviluppare le nuove generazioni di microchip e dei relativi equipaggiamenti”.

Anche la Semiconductor Industry Association, in una nota lo scorso 17 agosto, aveva già previsto “una disruption significativa per l’industria dei semiconduttori americana” ed espresso preoccupazione “dal cambiamento di policy repentino dell’amministrazione”. Un rischio che il Pentagono potrebbe aver calcolato con i progetti in cantiere – con il sostegno del Congresso – per un reshoring dell’intera catena del valore in America, come raccontato da Formiche.net.

Ad ogni modo, i microchip stanno diventando sempre più un chokepoint strategico nella guerra tecnologica tra le due superpotenze, le cui mosse e contromosse contribuiranno ad un graduale restringimento di un mercato tra i più integrati al mondo.

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