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Perché concordo con Nagel sull’allarme Npl. Scrive il prof. Pennisi

C’ è una diatriba in corso tra diverse banche, da un lato, e la Banca centrale europea (Bce), dall’altro, sulle nuove indicazioni in materia di calendar provisioning. In Italia, l’amministratore delegato di Mediobanca, Alberto Nagel, si è fatto portavoce di un malessere che non riguarda, però, solamente gli istituti di credito italiani, ma anche quelli del resto dell’Unione europea (Ue). Basta scorrere la stampa economica e finanziaria internazionale per toccarlo con mano.

Andiamo ai fatti, perché la materia è piuttosto complicata, anche e soprattutto per i non addetti ai lavori. A fine agosto, la Bce ha deciso di rivedere le proprie aspettative di vigilanza in merito agli accantonamenti prudenziali per le nuove esposizioni deteriorate (non-performing exposures, Npe) definite nell’Addendum alle Linee guida per le banche sui crediti deteriorati. La decisione è stata assunta tenendo conto dell’adozione di un regolamento dell’Ue che disciplina il trattamento di primo pilastro per le Npe. Il nuovo regolamento, entrato in vigore il 26 aprile 2019, integra le norme prudenziali vigenti, imponendo una deduzione dai fondi propri per le esposizioni deteriorate non sufficientemente coperte (da accantonamenti o altre rettifiche).

Questa revisione risponde all’impegno della Bce di riconsiderare le aspettative di vigilanza per le nuove Npe una volta ultimata la definizione delle nuove disposizioni legislative concernenti il trattamento di primo pilastro delle Npe. Per rendere più coerente il trattamento delle esposizioni deteriorate, sono state apportate le seguenti modifiche alle aspettative di vigilanza:

a) l’ambito di applicazione delle aspettative vigilanza della Bce per le nuove Npe sarà limitato alle esposizioni deteriorate derivanti da prestiti erogati prima del 26 aprile 2019, che non sono soggetti al trattamento di primo pilastro. Le Npe derivanti da prestiti erogati a partire dal 26 aprile 2019 saranno assoggettate al trattamento di primo pilastro; la Bce concentrerà la sua attenzione sui rischi connessi;

b) i calendari definiti per i relativi accantonamenti prudenziali (calendar provisioning), il percorso di graduale convergenza verso la piena applicazione e la suddivisione delle esposizioni garantite, nonché il trattamento delle Npe garantite o assicurate da un’agenzia ufficiale per il credito all’esportazione sono stati allineati con il trattamento di primo pilastro delle Npe previsto dal nuovo regolamento.

Secondo Nagel, “se noi applichiamo questa norma (che prevede di svalutare un credito deteriorato un terzo l’anno) a quello che sta succedendo ne esce un disastro, non solo sulle nostre banche. Applicando questa norma al post Covid è una bomba. È una priorità migliorare le procedure esecutive e fare una giusta revisione del calendar provisioning perché per le realtà più deboli del Sud Europa questo si riverbererrà sui conti bancari in modo importante e saremo nelle condizioni di dover ricapitalizzare in breve tempo”.

Chi ha ragione? Chi torto? A mio parere, la Bce ha scelto il momento sbagliato per modificare il calendar provisioning ed è stato un errore non consultarsi con le principali banche dell’unione monetaria.

Lo affermano due studi usciti in questi giorni. Non riguardano direttamente la Bce ma la situazione degli istituti bancari nell’era del Covid.19. Il primo, intitolato Covid-19 and European Banks, è stato condotto da Hözlem Dursun De Neef della Univerità Goethe di Francoforte e da Alexander Schandlbauer dell’Università della Danimarca del Sud. Da esso si ricava che di fronte alla pandemia, le banche meno capitalizzate hanno aumentato i loro prestiti, mentre quelle più capitalizzate hanno adottato strategie più restrittive. Le banche più capitalizzate hanno avuto un aumento di incagli, ristrutturazioni ed anche insolvenze temporanee. Di conseguenza, un più rigido calendar provisioning può mettere a repentaglio istituti sostanzialmente solidi.

A conclusioni analoghe giungono Shai Bernstein (Stanford Graduate School of Business). Josh Lerner (Harvard Business School) e Filippo Mezzanotti (Kelleg School of Management) in un saggio pubblicato sull’ultimo numero del Journal of Corporate Finance.


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