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Da Navalny a Minsk, Pellicciari svela cosa rischia davvero il Cremlino

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L’eco suscitata dalla nostra analisi su Alexey Navalny e le dure parole di Angela Merkel a nome della Ue da Berlino, giustificano un sequel sulla vicenda per interrogarsi sulle sue implicazioni sul piano interno ed internazionale per Mosca.

Avere, seguendo un ragionamento logico più che ideologico, scagionato Vladimir Putin ed i vertici a lui vicini dall’essere i mandanti diretti dell’attentato non chiude la vicenda ma anzi, se possibile, la rende più complessa, soprattutto per il Cremlino.

Qualora l’avvelenamento fosse provato (i russi con Sergej Lavrov contestano la ricostruzione dei fatti tedesca; mentre dalla clinica berlinese Charite ad oggi ancora non sono trapelati dati clinici, nonostante insistenti richieste russe), la questione per Mosca si farebbe ancora più insidiosa.

Avremmo conferma che qualcuno – probabilmente risentito per gli scandali svelati da Navalny – non ha esitato ad agire di sua iniziativa per compiere un gesto che ha creato un prevedibile (ed ennesimo) grave danno d’immagine per il Cremlino e per Putin in prima persona.

In una cultura governativa che preferisce ascriversi scelte sbagliate piuttosto che ammettere di non avere il controllo della situazione (un po’ il contrario dell’Italia), questo suonerebbe come un campanello d’allarme sulla attuale autorità del Cremlino. E ravviverebbe all’unisono alcune paure ataviche.

La prima è la perdita di autorità di Putin in un Paese che da sempre si personifica nel suo leader, nel bene e nel male. Tanto più se il carisma di questo leader si è molto basato sul fatto di provenire egli stesso da un’intelligence avvolta nel mito della efficienza “cui nulla scappa e che tutto controlla”.

Come è avvenuto in occasione degli attentati di Beslan, alle metropolitane a Mosca (a pochi metri dalla sede centrale dei servizi segreti) e a San Pietroburgo, sua città natale, l’immagine del “Presidente forte” ha risentito ogni volta che si è evidenziata una falla nell’efficienza dei servizi.

Sotto scacco per non essere riuscita a prevenire l’attentato (Navalny era obiettivamente un obiettivo sensibile) l’intelligence uscirebbe colpita ancora più pesantemente qualora non si trovassero in tempo ragionevole mandanti ed esecutori. E questo vale forse più sul piano interno che internazionale.

Né la situazione migliorerebbe qualora si scoprisse, come adombrato dal capo dell’intelligence russa all’estero Sergey Naryshkin, che dietro all’attentato operino agenti stranieri, nel tentativo al contempo di rilanciare l’immagine politica di Navalny e di colpire Putin.

Seguendo il ragionamento di cui sopra, sarebbe uno scacco forse maggiore per il Cremlino ammettere che servizi di altri Paesi riescano a portare un’azione cosi eclatante nel campo avversario.

La seconda paura antica che la vicenda sta facendo emergere rimanda al tradizionale punto dolente del rapporto tra Mosca con il resto del Paese territorialmente più esteso al mondo.

Ossessionata dal dovere difendersi da attacchi esterni e consapevole però di avere un territorio troppo esteso per essere presidiato; il Cremlino ha tradizionalmente avuto paura di una implosione dall’interno, in particolare nelle zone “asiatiche” più remote.

È un dato di fatto che ad est degli Urali, l’influenza del centralismo di Mosca ha faticato spesso a farsi sentire e che, nel confuso periodo degli anni 90, ampie zone del paese erano sotto controllo di potentati locali para-statali autonomi e violenti.

Con Putin la situazione era sembrata rientrare anche se appunto il Covid ha fatto emergere delle importanti crepe nella linea di comando Centro-Periferia.

Il fatto che Navalny sia finito in coma nella lontana, non solo geograficamente, Siberia si inserisce in questo quadro problematico. E paventa lo spettro di un ritorno ad un passato anarchico della “legge del più forte in loco” di cui in Russia nessuno, nemmeno nell’opposizione, sembra avere nostalgia.

Per non dire del dubbio che, scoperti i nomi dei responsabili, il Cremlino si trovi a scegliere se sia meno dannoso fronteggiarli o provare a ricondurli all’ordine con le buone, poiché incapace con le cattive.

Un’altra considerazione va fatta nel comparare la reazione di Mosca sul caso Navalny e su quanto sta contestualmente avvenendo in Bielorussia; due crisi che non possono essere lette disgiunte.

L’attendismo russo nell’agire a Minsk, nonostante l’assenza di competitors Occidentali sul campo come in Ucraina, dimostra che il Cremlino fatica ad imporre una soluzione che permetta di mantenere il paese nella propria orbita storica. E trovare un sostituto locale ad Alexander Lukashenko che, pur in seria difficoltà, conferma di conservare una autonomia dalla Russia.

In altri tempi pre-Covid, probabilmente l’azione del Cremlino sarebbe stata più diretta e dura sia in Bielorussia che sul caso Navalny, senza curarsi del giudizio negativo Occidentale dato per scontato.

Questa volta non lo è perché prevale il timore della critica interna al paese; uscito dalla pandemia – come avvenuto altrove – più refrattario nei confronti dell’establishment e delle sue scelte.

È curioso che l’Occidente, accantonato il vecchio obiettivo di un cambio di leadership a Mosca, sembri non sfruttare, se non a parole, questo momento di debolezza del Cremlino.

Ma utilizzare a sua volta la visibilità del caso Navalny per nascondere alle proprie opinioni pubbliche le sue incongruenze su scomodi temi del momento.

Dalla stessa Bielorussia, passata in secondo piano nel mainstream, ad Hong Kong, quasi dimenticata, agli scontri razziali americani, alla triste e snobbata vicenda di avvocati dei diritti umani che muoiono di fame nelle carceri turche (cioè di un paese alleato).

Per non parlare del doversi difendere dall’accusa generalizzata di alimentare ad arte la paura del virus. Per un disegno di strategia della tensione pandemica.

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