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Parigi, se la pandemia non ferma il terrorismo. L’analisi di Marone (Ispi)

Diciottenne, pachistano di Islamabad arrivato in Francia tre anni fa, già noto alle forze dell’ordine francesi perché fermato in possesso di un  sosetto nel giugno scorso, ma non schedato come estremista; anzi chi lo conosce dice che non avrebbe. È il profilo sintetico di Ali H., l’assalitore che ha ferito gravemente un uomo e una donna davanti al murales che ricorda la strage di cinque anni, in cui due fratelli qaedisti uccisero dodici persone nella redazione di Charlie Hebdo. Il giornale satirico francese non ha mai smesso le sue attività: opera da un redazione segreta protetta dall’intelligence, ma pubblica ancora vignette acide caustiche su Maometto, e per questi riceve minacce con cadenza regolare. Intensificate in questi giorni in cui il processo sui presunti complici dell’attentato condotto dai fratelli Kouachi sta entrando nel vivo.

Nell’attacco di ieri, Ali H. s’è presentato in quel luogo simbolico vestito come un classico diciottenne, tuta del Manchester City e sneakers rosse, ma in mano aveva una mannaia. L’ha sferrata con violenza alla testa colpendo alle spalle un giornalista di Premières Lignes, un’agenzia specializzata in giornalismo di inchiesta che ha sede nello stesso stabile, al piano inferiore rispetto alle vecchia redazione di Charlie Hebdo. Quando i fratelli qaedisti cinque anni fa attaccarono il settimanale, si fermarono prima al piano dell’agenzia per errore. Poi proseguirono verso la strage. Ieri Ali H. ha colpito anche un’altra persona, anche lei impiegata a Premières Lignes.

In occasione dell’anniversario dell’11 settembre al Qaeda ha minacciato la Francia facendo particolare riferimento a Charlie Hebdo. Il giorno pretendete l’Aqap (al Qaeda nella Penisola Araba, filiale a cui la guida suprema Ayman al Zawahiri ha affidato le azioni all’estero), aveva chiesto a “tutti i musulmani” di vendicarsi con la rivista francese che il primo settembre, giorno dell’inizio del processo contro i complici dei fratelli Kouachi, aveva ripubblicato le vignette sul Profeta – suscitando tra l’altro le proteste del governo pachistano. Ci sono indagini in corso, Ali H. è stato catturato da un agente speciale in piazza della Bastiglia, e altre sei persone sono già state fermate; ci sono altresì un luogo simbolico e un contesto (il processo) che può essere un innesco. Ancora è certamente presto per parlare di coinvolgimenti di sigle e cellule: ma cosa possiamo dire?

“Rispetto agli anni degli attacchi clamorosi il fenomeno è in flessione”, spiega a Formiche.net Francesco Marone, ricercatore associato all’Ispi, affiliato anche al Program on Extremism at George Washington University e all’International Centre for Counter-Terrorism (ICCT) dell’Aia: “È dall’agosto 2017, con gli attentati in Catalonia, che non ci sono in Occidente attacchi molto gravi (in particolare, con dieci o più vittime), ma, se si va a vedere il numero degli episodi, la minaccia non è venuta meno. E, paradossalmente, nel 2020, nonostante le restrizioni dei lockdown dovuti alla pandemia, gli attacchi sono in aumento rispetto sia al 2019 sia al 2018. Se questo attacco a Parigi verrà confermato sarà il quinto riconducibile alla causa jihadista realizzato in Francia quest’anno: e consideriamo che due sono stati compiuti ad aprile, durante la fase più restrittiva delle misure per combattere l’epidemia”. Per altro in uno di questi citati dall’esperto, a Romans-sur-Isère (poco fuori Lione) un sudanese ha ucciso due persone con un coltello: azione simile a quella di ieri.

Cambia la considerazione mediatica di questi eventi o anche altro? “In questa fase c’è certamente un minor peso del fenomeno terroristico nella gerarchia delle notizie – spiega Marone – ma non è sorprendente che susciti meno attenzione. Questo perché non ci sono più i grandi attacchi terroristici organizzati, come dicevamo; ormai spesso gli attentati vengono compiuti da persone auto-organizzate che di solito, fortunatamente, non sono in grado di compiere grandi stragi. Poi certo, il caso di Nizza rappresenta una clamorosa eccezione”. Si ricorderà, il 14 luglio del 2016 un attentatore ucciso 87 persone investendole con un autocarro mentre assistevano, sul lungomare, ai festeggiamenti per la festa nazionale francese.

Se è vera questa disattenzione dei media, è altrettanto giusto chiedersi qualcosa sulla riduzione della dimensione degli attacchi. Perché? “L’impressione è che in questa fase il parziale ritiro dei grandi gruppi armati, pensiamo all’Is, possa limitare le opportunità di aggregazione e le capacità organizzativa degli aspiranti terroristi”, spiega l’esperto: “Sulla base delle informazioni disponibili, oggi sembra esserci, tendenzialmente, una maggior difficoltà nel costruire piani complessi e ben organizzati, che sono poi quelli che fanno fare il salto di qualità: pensiamo proprio a Charlie Hebdo, o ancora meglio alla strage del Bataclan. Anche nei piani di cui veniamo a conoscenza e riusciamo a sventare vediamo che spesso si trattano di azioni solitarie. In questa fase, è più difficile preparare e portare a termine attacchi che coinvolgano più di una persona e, in particolare, soggetti capaci di usare armi non rudimentali, come sono quelle da taglio, o anche solo di acquisirne, anche perché in Europa recuperare un’arma da fuoco, per esempio, non è per niente facile a meno che non si sfruttino precedenti contatti col mondo della criminalità (come avvenuto, per esempio, negli attacchi jihadisti a Copenhagen del febbraio 2015); e, inoltre, senza avere competenze specifiche costruire un ordigno esplosivo davvero efficace, per fortuna, non è così semplice”.

Questo è successo anche ieri, dove l’aggressione di Ali H. è sembrata, se non improvvisata, ben poco organizzata: “Non è stato né un attacco in cui l’attentatore sacrifica deliberatamente la sua vita nel corso della missione (come in un attentato suicida) – spiega Marone – o aspetta il “martirio” per mano dei poliziotti e nemmeno quello in cui l’attentatore ha studiato in anticipo un piano di fuga. Il rischio è però che queste azioni possano riattivare lo spirito di emulazione. Vale poi la pena di ricordare che quello contro Charlie Hebdo nel 2015, a differenza dei tanti attacchi indiscriminati degli ultimi anni (contro semplici passanti, per esempio), è stato anche un attentato selettivo, che aveva deliberatamente l’intento di punire determinati soggetti per loro presunte colpe personali (le caricature contro il Profeta Mohammed). Attacchi selettivi come questi rischiano di costruire attorno alla causa jihadista una certa simpatia, proprio perché, nel caso di Charlie Hebdo, l’attacco contro chi offende il Profeta può essere associato a una strategia retorica di giustificazione della violenza meno debole rispetto ad altre”.

Possiamo dire che un’azione del genere era tutt’altro che sorprendente, visto il contesto? “Certamente l’inizio del processo, seguito quello sì dai media, ha fatto da fattore di spinta. Ed è sorprendente che non fosse presidiata quella zona. Perché è vero che spesso non sai chi colpirà e quando e sarebbe stato comunque difficile prevenire l’azione; ma il fatto che nel mese in cui è cominciato il processo sull’attacco contro Charlie Hebdo, sono state ripubblicate le vignette ed erano già arrivate minacce contro il giornale, quella zona nota a tutti non fosse presidiata è stato apparentemente un errore grave. Si tratta di un luogo simbolico, e il rischio in Francia iniziava a lampeggiare rosso già da un po’. Già a fine agosto il Ministro dell’Interno, proprio  alla vigilia dell’apertura del processo, aveva notato che la minaccia rimaneva “estremamente alta” nel Paese. Aggiungiamo che la Francia è anche fortemente impegnata in operazioni militari contro gruppi armati jihadisti nel Sahel e non più tardi del 17 settembre lo Stato Islamico aveva ufficialmente rivendicato l’uccisione di sei cooperanti francesi in Niger”, chiosa l’esperto.

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