Tradizionalmente, la teoria dello sviluppo e la geografia economica si sono evolute come sottocampi separati dell’economia. Più recentemente, tuttavia, attraverso nuove intuizioni teoriche ed evidenze empiriche, sono emerse convergenze che le hanno fatte diventare sempre più unite. Queste hanno diversa origine e natura, ma nel loro complesso sottolineano il fatto che le stesse forze di base determinano contemporaneamente la diversificazione produttiva per una data distribuzione dei fattori di produzione (teoria dello sviluppo) e la posizione a lungo termine di tali fattori sul territorio (geografia economica).
Per capire le forze che si sprigioneranno nella riorganizzazione dello spazio economico a seguito del Covid-19, tre caratteristiche degli sviluppi teorici appaiono particolarmente rilevanti. Anzitutto, in questo momento storico l’economia è interessata da un aumento dei rendimenti legati alle dimensioni delle imprese e della concorrenza imperfetta. Questo aumento riguarda i giganti delle comunicazioni come Apple e Google, ma dipende anche dal fatto che la logistica e internet hanno moltiplicato gli scambi tra le regioni e le subregioni in modo progressivamente indipendente dalla loro collocazione geografica.
Nel passato, siamo passati gradualmente dalla città nucleare alla città-regione, con aree geografiche anche di rilevante dimensione che si sviluppano e vivono intorno a un “core” urbano. In questo centro di attività si sono concentrati gli immobili di pregio e con essi i servizi ad alto valore aggiunto e i beni pubblici principali. Dalla polarizzazione centro-periferia, d’altra parte, si originano anche i costi dovuti all’inquinamento, all’esclusione sociale e alla criminalità.
In secondo luogo, con l’allargamento dell’area urbana a un territorio sempre più vasto e diversificato, si è sviluppato, come fonte di competitività per gli insediamenti produttivi e per i residenti un “capitale territoriale” nuovo e diverso, ossia un insieme di beni pubblici e privati, che includono in particolare il patrimonio culturale e ambientale, legati a una combinazione esclusiva allo stesso tempo causa ed effetto degli insediamenti in una area geografica integrata.
In terzo luogo, un miglioramento generale della logistica ha determinato il cosiddetto effetto del mercato interno, ossia una crescita di aree più vaste ed attrezzate che sfruttano i vantaggi della accessibilità e della disponibilità in loco di una varietà sempre maggiore di servizi (le cosiddette “economie di agglomerazione”).
Prima della pandemia questi fenomeni costituivano il punto di partenza e la spina dorsale della nuova geografia economica, delle macroregioni urbane e dei “core” cittadini e portavano molti studiosi a ipotizzare forme di concentrazione ulteriore, quali, per esempio, una crescita esponenziale degli insediamenti urbani secondo il modello della “città verticale” .
Infine, e in parziale contraddizione con i fenomeni di concentrazione spaziale delle attività economiche, già prima che la pandemia minacciasse di sconvolgere i modus operandi produttivi e gli stili di vita, la digitalizzazione aveva cominciato a consentire alle imprese di smaterializzare la propria presenza, separando le proprie attività dalla loro localizzazione e permettendo una gestione dello spazio sempre meno vincolante.
In un certo senso questo fenomeno veniva da lontano, poiché già dagli anni ’90, la rivoluzione postfordista aveva contribuito a determinare una separazione delle funzioni delle imprese nello spazio, consentendone una localizzazione distinta delle funzioni di direzione e dei servizi ad alto valore aggiunto rispetto a quelle meno pregiate, attraverso le pratiche della delocalizzazione (l’approdo anche a spiagge straniere attraverso il cd. “offshoring”), del sub-contracting, dell’out-sourcing.
La nuova economia digitale intensifica questo fenomeno, ma ne cambia anche i connotati, poiché da un lato propizia forme di re-localizzazione (“re-shoring” ossia il ritorno alle spiagge patrie delle imprese delocalizzate), mentre dall’altro lato induce nuove forme di frammentazione spaziale, attraverso la trasformazione della fabbrica produttiva, basata su innovazioni di processo non legate alla localizzazione, quali lo smart-working, la robotica e l’intelligenza artificiale.
Il costo sociale delle tendenze in atto derivava dal deterioramento ambientale e dalla esclusione sociale frutto della crescente polarizzazione spaziale, con fenomeni di congestione dei centri e delle aree centrali e di progressivo spopolamento e degrado dei territori periferici.
Lungi dallo scoraggiare gli insediamenti urbani, nel tentativo di risolvere i problemi dell’inquinamento e del degrado sociale, questi costi hanno paradossalmente richiamato ulteriori risorse tecnologiche nelle aree più sviluppate. Ciò ha causato una concentrazione ulteriore dell’insediamento spaziale intorno a poche attività economiche, determinando così modelli eterogenei di specializzazione territoriale. Questi modelli hanno però tutti in comune la combinazione di zone residenziali diffuse e di zone produttive specializzate, tra cui spesso insediamenti cittadini ad alta densità, dedicati alla produzione e al consumo di servizi.
Questi insediamenti nel complesso tendono verso uno sviluppo del territorio intorno a una pluralità di centri, con periferie diffuse secondo un modello connettivo e interstiziale che presenta nuove forme di degrado ambientale e sociale. I centri urbani e peri-urbani sono così cresciuti a dispetto delle diseconomie di congestione, a causa della smaterializzazione digitale delle imprese, della separazione delle attività di produzione, distribuzione e consumo, e della integrazione tra le filiere produttive dei servizi ad alto valore aggiunto nei settori della finanza e dell’amministrazione, della formazione, della Pa, del turismo e del tempo libero.
Infine, la caduta degli investimenti pubblici dovuta alle crescenti difficoltà finanziarie dei governi è stata accompagnata anch’essa da una maggiore concentrazione e apparentemente più elevata produttività delle infrastrutture e degli altri interventi pubblici nelle aree centrali.
Il Covid-19 ha agito come uno shock di offerta asimmetrico, determinando in maniera selettiva, prima attraverso il lockdown e poi attraverso le misure restrittive, una sospensione delle attività ordinarie che ha colpito soprattutto le regioni urbane, con significative ripercussioni sui centri cittadini e sulle attività di core (servizi di ogni genere). I lockdown hanno stimolato e continuano a generare forme di sostituzione dei consumi basati sulla digitalizzazione, accelerando in maniera drammatica alcuni processi, di cui hanno aumentato incidenza e persistenza.
Questi processi includono per esempio la logistica della consegna domiciliare e del telelavoro, che hanno fatto un balzo imprevedibile durante i lockdown, mentre prima avanzavano con cautela a causa della infrastruttura pre-esistente e della inerzia dei comportamenti degli individui e delle istituzioni. La tendenza al policentrismo territoriale, già in atto prima della pandemia, ma secondo forme di forte polarizzazione tra centri e periferie, appare rafforzata.
Essa però segue un modello organizzativo trasformato dalla valorizzazione inedita delle abitazioni residenziali, come luoghi di autosufficienza familiare che internalizzano i servizi di comunicazione e informazione per il lavoro e il tempo libero, rendendo di fatto obsolete molte strutture attuali di organizzazione del lavoro e dei consumi entro e fuori delle mura cittadine. Come conseguenza, le abitazioni sono investite da una ondata di ricerca, ricostruzione e utilizzazione polifunzionale che ricorda analoghe vicende medioevali, la domanda di autosufficienza delle residenze nelle zone rurali e la tendenza sempre presente a trasformare servizi pubblici in servizi privati di una società che mira alla opulenza di massa.
In conclusione, la pandemia potrebbe avere introdotto o accelerato, in un quadro di sviluppo territoriale già dinamico, una serie di innovazioni di tipo trasformativo che rimettono in gioco gli sviluppi e le certezze precedenti, creando nuovi rischi e nuove opportunità. Dal lato del capitale territoriale, queste innovazioni riguardano la complementarietà tra attività private e pubbliche e, in particolare, tra patrimonio culturale e patrimonio ambientale, entrambi investiti dai cambiamenti dell’organizzazione del lavoro, della produzione e degli stili di vita che si vanno delineando. Questi includono la trasformazione delle forme tradizionali di turismo di massa in nuove forme “sostenibili” o “rigenerative” di turismo e spostamenti sul territorio rese possibili dalla espansione del telelavoro e dai nuovi modelli di insediamento territoriale.
Se, come è probabile, la separazione tra luoghi di residenza e luoghi di lavoro e la riorganizzazione delle filiere produttive verranno rafforzate all’interno di un movimento verso un policentrismo regionale, il capitale territoriale sarà anch’esso ridefinito in termini di spazi più ampi, di maggiore diffusione geografica delle attività di produzione e di consumo. Ciò comporterà una spinta alla valorizzazione del patrimonio territoriale anche attraverso nuove forme di turismo di più lunga persistenza e maggiore coscienza culturale e ambientale.
In questo quadro di rischi ed opportunità generate dalle trasformazioni autonome scatenate dalla pandemia, la rigenerazione degli spazi che seguirà la fine delle prime fasi del Covid-19 e le risorse europee che saranno disponibili, presentano la sfida di ridefinire la politica di investimenti pubblici in relazione al territorio.
Questa sfida ha particolare rilievo per alcune delle filiere più colpite dalle conseguenze economiche della pandemia, quale quelle del turismo nelle città d’arte e dei servizi dello spettacolo e della cultura, per cui è necessario programmare un rilancio non solo delle grandi concentrazioni iconiche, ma anche un grande progetto di investimenti nella manutenzione e valorizzazione del patrimonio “minore”, disperso sul territorio, specialmente nel Mezzogiorno, al pari di una vegetazione storica largamente misconosciuta. Per far ciò è però necessario elaborare un programma di largo respiro, che sia anzitutto una proposta di rilievo culturale, e che preveda, tra l’altro, la costruzione del contesto e l’adozione da parte delle comunità locali di un modello radicalmente nuovo di programmazione, manutenzione, progettazione e gestione del patrimonio stesso.