Nel referendum confermativo della legge costituzionale sul taglio dei parlamentari hanno vinto i Sì col 70% dei voti espressi. Io che mi sono battuto per il No ammetto la sconfitta. Non mi ero fatto soverchie illusioni – pur cedendo qualche volta all’attesa di un miracolo – che potesse essere capovolta, nelle urne, una indicazione sostenuta da quasi tutti i partiti e approvata nell’ultimo passaggio alla Camera dalla quasi totalità dei deputati votanti. Ma ancor più dei voti raccolti, il successo del Sì si fonda sulla pervicacia di una subcultura populista entrata ormai a far parte del dna dell’opinione pubblica.
Vincere il referendum per i sostenitori del Sì era facile come sparare sulla Croce rossa. Almeno stavolta noi del No abbiamo risposto al fuoco. L’unico elemento di magra consolazione è, a mio parare, la certezza che il taglione recherà meno danni di quelli che sarebbero derivati nel 2016 dalla conferma e dall’entrata in vigore della riforma Renzi-Boschi: una legge ispirata, in molte parti, alla demagogia del populismo ma con la pretesa, però, di realizzare demolizioni istituzionali molto più devastanti (si pensi alla pagliacciata del Senato delle autonomie) del contentino riconosciuto dagli italiani a Gigi Di Maio. Il mio augurio consolatorio è che si metta una pietra sopra le ricorrenti molestie alla Costituzione.
Per quanto riguarda il risultato delle elezioni regionali, le previsioni della vigilia non si sono avverate: la sconfitta del Pd in alcune regioni-chiave non c’è stata né in Toscana, né in Puglia (la Campania era la sola regione sicura). Giorgia Meloni rosica le Marche: e chi rosica non digiuna. Di converso, la Lega (nonostante una diversa campagna di Salvini e una maggiore qualità della candidata leghista in Toscana rispetto a quella di Lucia Borgonzoni in Emilia-Romagna) guarda con stupore e preoccupazione al successo strabiliante della Lista Zaia in Veneto che ha preso il doppio dei voti di quella ufficiale del Carroccio. In sostanza, Luca Zaia avrebbe vinto da solo anche se la Lega non si fosse presentata. Il M5S continua a perdere consensi, a poco più di due anni dal trionfo del 2018. C’è chi sostiene che gran parte dell’elettorato “grillino” abbia infilato nelle urne un voto utile o disgiunto, a favore dei candidati dem. Sarà sicuramente vero. Ma i voti non si danno in prestito. Quando se ne vanno altrove, diventano suffragi di quel candidato che li riceve.
Gli analisti, a mio avviso, sottovalutano un aspetto che era già emerso nelle elezioni emiliano romagnole. Il Pd vince laddove non si presenta in coalizione con il M5S, mentre la “grosse koalition” de noantri è stata sbaragliata, prima in Umbria, poi in Liguria. E prevale nettamente dove ci sono candidati – è il caso di Vincenzo De Luca in Campania – che trattano i pentastellati come dei mentecatti. Ciò nonostante, Nicola Zingaretti, nel primo commento televisivo, si è rivolto agli alleati sostenendo che insieme avrebbero vinto in quasi tutte le regioni. È una constatazione incredibile perché denota l’attitudine del gruppo dirigente dem a non prendere neppure in considerazione l’ipotesi di una competizione elettorale – magari anticipata – in cui il centro sinistra possa sfidare le destre senza doversi portare appresso il cataplasma dei grillini.
Certo, la partita europea è troppo importante per mettere in crisi il governo. Ma fino a che punto è consentito fidarsi del M5S? L’ostinazione pregiudiziale (e puntigliosa) nei confronti del Mes non è un segnale incoraggiante per l’adesione e la gestione delle risorse in conto Recovery Fund.