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Per evitare la guerra, il Pd ha scelto il disonore. La versione di Cazzola

Sarà capitato anche a chi legge di avere lo stesso pensiero che ha attraversato la mente di chi scrive quando, davanti al Nazareno, dove era convocata iI 7 settembre la Direzione del Pd, Nicola Zingaretti ha ribadito solennemente che il governo deve aderire al Mes. “Guarda un po’ – mi sono detto – questa ennesima levata di scudi  costituisce il ‘contrappasso’ della calata di braghe sul Sì nel referendum del ‘taglione’”.

Non è la prima volta che il segretario del Pd abbaia alla luna. Prima delle elezioni in Emilia-Romagna, spostò tutti il Pd a Bologna per svolgere un megaconvegno programmatico e se ne uscì a freddo con la rivendicazione dello jus soli, mettendo in imbarazzo persino Stefano Bonaccini per quell’inattesa intemerata che avrebbe portato acqua al mulino della candidata leghista. Lo stesso è accaduto con la richiesta di predisporre le riforme complementari al taglio dei parlamentari e di fare approvare da almeno una Camera la nuova legge elettorale prima del voto del 20 settembre. Parole al vento. Si vede che Zingaretti, da piccolo, non disdegnava la frequentazioni degli oratori, dove ha appreso la regola del “dixi et servavi animam meam”.

È bastato, anche in questa occasione, che trascorresse una giornata perché i suoi alleati lo smentissero. Mentre Giuseppe(i) Conte tergiversava sul Mes a Modena al Festival dell’Unità, Luigi  Di Maio, ospite di Giovanni Floris, confermava che su quell’argomento la linea non sarebbe cambiata. Che tra partiti alleati tanto diversi tra di loro vi sia una dialettica vivace è comprensibile, ma dovrebbe essere chiarito il modo con cui si compongono i dissidi, se non attraverso la consueta pratica del rinvio. A questo punto verrebbe l’intenzione di consultare un politologo per porgli una domanda: ma se in una coalizione di governo uno degli alleati pone ripetutamente una questione e l’altro fa ripetutamente orecchie da mercante, che cosa potrebbe succedere? Quale è il rimedio: una crisi di governo? O il nulla di nulla? In questo secondo caso non ha alcun senso insistere per onor di firma perché l’unico risultato che si ottiene è quello di combinare una figura barbina dopo l’altra. Per metterla in prosa: “Chi più ama è il sottomesso. E deve soffrire”. Ma la notizia più sconvolgente è la decisione assunta dalla Direzione di votare Sì, “un po’ per celia, un po’ per non morir”. Certo ci sarebbero difficoltà – ha ammesso Zingaretti nella relazione – ma non sono convinto che se dovessero prevalere i No cadrebbe il governo”.

Allora dove sta il problema? Per quali motivi  sarebbe in gioco non “un’alleanza di governo, ma la tenuta della Nazione per i prossimi anni”? Non viene al segretario del Pd il dubbio che sia proprio una vittoria del Sì a determinare il rischio di una maggiore instabilità politica? Quando fosse deciso da un voto popolare che l’attuale Parlamento non è conforme a ciò che stabilisce la Costituzione novellata, le opposizioni – magari forti di un successo alle elezioni regionali – avrebbero un motivo in più per pretenderne lo scioglimento anticipato. Si dice, a Nazareno, che questo è il primo passo per la ripresa di un processo riformatore. Ma non si raggiunge Roma prendendo il treno per Milano. I sostenitori del “Sì buono” sono ancora dell’opinione che il virus delle istituzioni stia nel bicameralismo con parità di funzioni. Ma  in verità si apprestano, in caso di vittoria del Sì, ad un regime di bicameralismo  più che perfetto, dal momento che per le due Camere vedranno eliminate persino le differenze ora esistenti (i requisiti dell’elettorato attivo e passivo). Poi, si sarà accorto Zingaretti che secondo Di Maio il bicameralismo paritario è la soluzione migliore? Ne deriva una constatazione ovvia:  anche per quanto concerne il percorso di aggiustamento di altre norme costituzionali (in conseguenza del “taglio”) e la predisposizione della legge elettorale, le posizioni sono tutt’altro che chiarite all’interno della maggioranza. E senza quegli aggiustamenti il taglio lineare dei parlamentari diventerà un salto nel buio.

In sostanza – si parva licet – a Nicola Zingaretti si potrebbe rivolgere la critica con la quale Winston Churchill si dissociò dagli accordi di Monaco del 1938. “Per evitare la guerra avete scelto il disonore. Avrete il disonore e la guerra”. Il sottoscritto – tranne che al referendum istituzionale del 2 giugno 1946 – ha preso parte a tutte le battaglie referendarie che si sono svolte in Italia (negli ultimi tempi – visto il dissenso sui quesiti – ho disertato il seggio per non far scattare il quorum). In questi giorni mi capita spesso di pensare al referendum del 1985 promosso dal Pci per l’abolizione del decreto (poi convertito in legge) sulla “scala mobile” varato dal governo Craxi l’anno precedente. La battaglia dei sostenitori del No era tutt’altro che semplice: occorreva spiegare che l’indennità di contingenza non era un aumento salariale, ma un fattore che stabilizzava l’inflazione erodendo il potere d’acquisto delle retribuzioni. In soldoni, tuttavia, si era calcolato che una vittoria del Sì avrebbe “risarcito” le buste paga di circa 360mila lire, nel frattempo “sottratte” (ovviamente guai a valutare la risalita del potere d’acquisto intervenuta in quello stesso periodo) in conseguenza del decreto detto di San Valentino.

Io condussi la battaglia del No in prima fila nel sindacato e sinceramente ero convinto di perdere (il Pci di allora era davvero una macchina da guerra). Invece prevalsero nettamente i No. Certo, i partiti e i sindacati che si erano schierati in difesa della legge non erano “gusci vuoti”, ma è altrettanto vero che l’elettorato volle chiudere i conti con l’inflazione (si era arrivati anche a livelli del 25%).  I have a dream, ho fatto un sogno. E se il 21 settembre ci accorgessimo, dall’esito delle urne,  che gli italiani non ne possono più della demagogia plebea che ci trasciniamo appresso da decenni?



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