Gente di poca fede è il titolo del volume, edito da Il Mulino, nel quale il sociologo Franco Garelli ha fotografato lo stato di salute del sentimento religioso nell’Italia di oggi. L’inchiesta conferma il trend consolidato da decenni e comune a buona parte dell’Europa mediterranea: cresce la percentuale di italiani che non credono in Dio e, ancora di più, quelli che abitualmente non assistono ad alcuna funzione religiosa.
Tuttavia, c’è un dato in controtendenza e che finisce per rubare la scena a tutti gli altri: il numero quasi raddoppiato dei “cattolici culturali” che passa dal 27 al 43%. Questi italiani vedono nel cattolicesimo un “deposito di tradizioni e valori”, ma solo il 20% di loro si dichiara fedele convinto ed attivo. Si tratta di un dato che nulla ha a che vedere con la stagione dei cosiddetti “atei devoti” ormai esauritasi da tempo, ma che manifesta la stessa volontà di rivendicare un’appartenenza religiosa familiare nella funzione di contraltare a ciò che viene percepita come una minaccia dilagante: ieri più al fondamentalismo islamico post-11 settembre 2011, oggi maggiormente al laicismo fattosi culto tramite la “liturgia” del politicamente corretto.
L’aumento così consistente dei “cattolici culturali” non è certo una cattiva notizia per la Chiesa, ma per far sì che diventi buona è necessario non cadere nell’errore tratteggiato dal filosofo francese Rémi Brague nel saggio Europe, la voie romaine: va bene esaltare il ruolo storico del cristianesimo in quanto tale, ma senza mai dimenticare che è Cristo ad essere al centro del cristianesimo e non il cristianesimo stesso.
Quindi, sarebbe un peccato accontentarsi di una dichiarazione di appartenenza culturale senza augurarsi uno sforzo in più per vedere se questa predisposizione favorevole al cattolicesimo sia in grado o meno di diventare una vera e propria conversione. Ciò detto non in un’ottica di proselitismo, ma nella convinzione che la testimonianza personale ed autentica di fede rappresenta il modo migliore per valorizzare all’esterno il cristianesimo.
Se si limita alla rivendicazione di una mera appartenenza “campanilistica”, la crescita dei “cattolici culturali” rischia di essere uno sterile – per quanto sorprendentemente piacevole – segno più nelle indagini statistiche; essere lievito nella società richiede, però, la volontà di seguire la strada indicata nel 1995 da una figura dalla “complessa personalità” (parole del cardinal Biffi) come Giuseppe Dossetti: quella della formazione della coscienza a dispetto della ricerca dell’esteriorità. In questo senso andrebbe ricostruito anche il rapporto – troppo spesso logorato – tra laici e religiosi in una logica di contaminazione reciprocamente proficua: da un lato, la vicinanza ai bisogni e al sentire comune dei primi potrebbe “depurare” l’apostolato dei secondi da fumosità ed impostazioni ideologiche oggigiorno non rare; dall’altro l’accompagnamento ed il discernimento di un sacerdote potrebbero allontanare il fedele meno maturo dalla tentazione di cadere nelle strumentalizzazioni del cattolicesimo fatte per fini ed interessi lontani dalla spiritualità.
La canalizzazione del fermento dei nuovi “cattolici culturali” all’interno di rapporti fiduciari con padri spirituali o nell’ambito di comunità parrocchiali (e non solo) potrebbe diventare un buon viatico per ridimensionare la tendenza a fare della presenza dei cattolici in società una semplice gara a porre bandierine nei posti giusti. Al tempo stesso, potrebbe rappresentare un’opportunità di rinascita per preti stanchi e comunità svuotate, permettendo anche di scongiurare quella clericalizzazione dei laici più volte denunciata da papa Francesco e che trova terreno fertile proprio nelle realtà scarsamente frequentate.