Il rischio di guerra su larga scala tra Armenia e Azerbaijan c’è. Gli scontri attuali sulla linea del confine con il Nagorno Karakakh sono diversi rispetto al passato, più cruenti e soprattutto più imprevedibili per una serie di fattori che vanno dalla pandemia da Covid-19 all’assertività della Turchia, fino al fallimento conclamato del Gruppo di Minsk che dovrebbe mediare la disputa. È il quadro descritto a Formiche.net da Nona Mikhelidze, che guida il programma Europa orientale ed Eurasia dell’Istituto affari internazionali (Iai). Intanto, dai ministeri della Difesa di Armenia e Azerbaijan arrivano numeri impressionanti: sommando i bollettini, sarebbero 700 i militari uccisi negli scontri che hanno visto l’impiego di carri armati, droni, artiglieria pesante e sistemi missilistici di difesa aerea. Baku e Yerevan si rimbalzano la responsabilità dell’escalation, e mentre da tutto il mondo arrivano inviti ad abbassare la tensione, è il presidente turco Recep Tayyip Erdogan a mostrare la presa di posizione più forte: “L’Armenia minaccia la pace nel Caucaso”.
Com’è la situazione?
È la situazione di un conflitto in atto da trent’anni, con uno status quo sempre fragile e caratterizzato da episodi di “small-cases military escalation”. Adesso però la situazione è un po’ diversa rispetto al passato, e anche rispetto agli scontri di luglio e a quelli del 2016. Sono infatti intervenuti alcuni fattori che dovranno essere tenuti in considerazione per comprendere gli sviluppi futuri, fattori che hanno spinto l’Azerbaijan a lanciare l’offensiva per riprendere alcuni dei territori persi.
Quindi l’escalation nasce dall’azione dell’Azerbaijan?
Non credo che fosse nell’interesse armeno avventurarsi in un’escalation di questo tipo. Difatti, l’Armenia ha vinto la guerra e ha l’interesse a mantenere i territori già presi. Avrebbe poco senso provocare l’Azerbaijan con azioni militari. Certo, provocazioni ci sono state anche da parte armena. Il Nagorno Karabakh ha ad esempio proposto di spostare la sua capitale da Stepanakert a Shusha, una città associata molto alla cultura azera e in passato occupata dagli azeri. Baku ha letto tale ipotesi come una provocazione. Un altro fattore è il recente cambio di governo in Armenia, da alcuni letto come possibile inizio di una nuova era di mediazione. Tuttavia, Baku ha già chiarito che a suo modo di vedere il primo ministro Nikol Pashinyan mantiene la linea dei vecchi governi, e ciò indica che non spera in una risoluzione pacifica o a suo favore.
Da tutto il mondo (Nato e Unione europea comprese) arrivano appelli ad abbassare la tensione. Come agisce il contesto internazionale sulla crisi in atto?
È un altro fattore tra quelli di cui parlavo prima. Il mondo è preso da varie altre questioni, a partire dalla pandemia. Gli Stati Uniti (co-chair del Gruppo di Minsk che dovrebbe mediare il conflitto) sono inoltre presi dalle elezioni presidenziali, senza contare il fatto che Trump ha adottato una politica di completo ritiro dal Caucaso, venendo percepito dai Paesi della regione come disinteressato all’intervento.
Tra gli altri si è mosso Emmanuel Macron, sentendo i leader dei due Paesi. Anche la Francia è nel Gruppo di Minsk.
Ma la Francia anche ha altri problemi. Problemi con la Turchia nel Mediterraneo, con la Russia sul caso Navalny e problemi di leadership in Europa. La Russia (terzo co-chair del Gruppo di Minsk) ha anch’essa altri problemi, tra il caso Navalny e la pandemia. Una seconda ondata di Covid-19 è già partita e peggiorerà ulteriormente la crisi economica in atto.
E la Turchia?
Recep Tayyip Erdogan emerge come possibile game changer a favore dell’Azerbaijan. Ieri, per la prima volta, la Turchia ha dato appoggio assoluto all’Azerbaijan. I due Stati si considerano da sempre fratelli, ma il governo turco sulla questione del Nagorno Karabakh ha sempre mantenuto una certa neutralità, chiamando le parti a raggiungere la pace. E invece ieri Erdogan ha detto che l’Armenia minaccia la pace nel Caucaso. Il fatto che si sia già dimostrato più assertivo in Medio Oriente e nel Mediterraneo, ci porta a pensare che lo sarà anche nel Caucaso, una regione che la Turchia ha sempre lasciato alla Russia, cercando di defilarsi. Ora il presidente turco sembra indicare una disponibilità maggiore a intervenire nel conflitto, e ciò potrebbe cambiarne il destino. Se Ilham Aliyev sentirà di avere l’appoggio militare turco, non escludo che possa avventurarsi in azioni su larga scala, che possono trasformarsi anche in guerra aperta.
La Russia che farà?
È obbligata a difendere l’Armenia in base agli accordi di sicurezza siglati tra i due Paesi. Tra l’altro, proprio il Nagorno Karabakh è stato alla base della rinuncia di Yerevan a siglare nel 2013 l’accordo di associazione con l’Unione europea. In caso di firma, Mosca aveva minacciato di non dare più appoggio all’Armenia nell’eventualità di un attacco dall’Azerbaijan. Ora, è indicativo il fatto che il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov abbia detto che la Russa è in stretto contatto con la Turchia (e non con le parti azere e armene), elemento che rafforza l’idea di un Erdogan più assertivo, tanto da essere riconosciuto tale da Mosca, che comunque ha detto che al momento dovuto sentirà anche Aliyev. C’è però un altro elemento che descrive l’ipocrisia russa rispetto all’ambizione di essere mediatore nella disputa. Vende armi sia all’Armenia che all’Azerbaijan. Paradossalmente, ne vende più a Baku di quanto non faccia la Turchia, che pure resta primo partner strategico per gli azeri.
Cosa succederà adesso?
Ci sono due scenari possibili. Il primo, dopo aver affermato la ripresa del controllo su sei o sette villaggi, è che l’Azerbaijan si ritenga soddisfatto. Sono conquiste territoriali che potrebbero bastare a uso interno, sebbene lo scenario ideale sarebbe la riconquista di tutti i territori (ma non a ogni costo). Già in passato, Aliyev ha reso il Nagorno Karabakh uno strumento di propaganda per spostare l’attenzione da alcuni problemi interni. Si possono immaginare dunque episodi di brevi escalation una o due volte l’anno per riprende qualche altro territorio, almeno fino a quando non interverrà la Russia e tornerà tutto come prima.
E il secondo scenario?
È una guerra su larga scala, in cui i due attori regionali sono rispettivamente appoggiati da Russia e Turchia. Al momento l’interesse russo non è la guerra, né la risoluzione del conflitto, poiché questo resta l’unico leverage sull’Armenia. Mosca ha interesse a mantenere il conflitto congelato, e non certo a entrare in guerra con la Turchia. Neanche Erdogan ha avuto finora interesse a indirizzarsi verso uno scenario di questo tipo. Ma adesso è diventato imprevedibile e non escludo che possa muoversi diversamente.
C’è anche una questione energetica visti i giacimenti azeri nel Mar Caspio e la caduta del prezzo delle risorse naturali?
Io la escluderei. La percezione del mondo internazionale è che l’Occidente non condanni apertamente Aliyev in virtù di interessi energetici. In realtà, importiamo così poco dall’Azerbaijan che di sicuro non è questo a influenzare l’ipotesi di condanna. La verità è che parliamo di un conflitto in cui l’Ue non può appoggiare o condannare nessuna delle parti. L’Unione europea ha da tempo deciso di defilarsi di fronte alla mediazione dell’Osce. Anche l’ipotesi di sostituire la Francia con l’Ue in qualità di co-chair del Gruppo di Minsk non è andata in porto. Piuttosto, il problema per la comunità internazionale è il completo fallimento del Gruppo di Minsk, che non è stato capace di risolvere la disputa. È evidente che nessuno pretende la risoluzione di un conflitto che somma la dimensione geopolitica a quella etnica, ma almeno lo stanziamento dei peace-keepers poteva essere un deterrente per evitare episodi di escalation.
Negli anni ci sono state varie proposte per risolvere la questione, tra cui il riconoscimento da parte di Baku del maggior grado di autonomia possibile al Nagorno Karabakh in cambio della restituzione dei territori occupati dagli armeni. C’è margine per procedere?
Non credo. Il problema del riconoscimento dell’autonomia è intricato. Neanche l’Armenia ha riconosciuto l’indipendenza del Nagorno Karabakh. Yerevan sostiene che, anche nel caso in cui l’Azerbaijan riconosca autonomia alla regione, Baku non sarebbe affidabile. In altre parole, per gli armeni non ci si può fidare del regime di Aliyev, ritenuto dittatoriale e incapace di garantire il rispetto dei diritti umani ai suoi stessi cittadini. D’altra parte, l’Azerbaijan si dichiara pronto a concedere l’autonomia, ma non dà alcuna garanzia agli armeni. Bisogna inoltre considerare che al governo del Nagorno Karabakh l’autonomia non sta bene. Personalmente, dunque, con gli attuali governi non vedo alcuna ipotesi di risoluzione. L’unica via è la gestione dello status quo mediante l’intervento di peace-keepers.