Negli ultimi anni, che poi pochi non sono, la questione ha assunto i tratti di una vera e propria urgenza nazionale senza che però dalla fotografia dell’esistente si riuscisse a fare un passo in avanti, alla ricerca di una soluzione che potesse in qualche modo invertire la rotta. Certo, il tema è al centro del dibattito pubblico – e come potrebbe non esserlo, stiamo comunque parlando della capitale d’Italia – ma quasi mai si è riusciti ad andare oltre la pur doverosa denuncia di ciò che non va. Un autobus che prende fuoco, un albero che si scaglia a terra alle prime piogge, un cassonetto traboccante di rifiuti. Immagini di ordinaria incuria con cui da tempo siamo abituati a convivere, perché le vediamo dal vivo oppure trasmesse da qualche telegiornale o programma di approfondimento.
Detto che le cose che non funzionano sono molte, ci sono però alcune domande da porsi per andare alla radice dei mali che affliggono Roma. Com’è potuto accadere che la città terna precipitasse in una crisi così profonda? Quali sono i limiti che maggiormente ne soffocano le possibilità di rilancio e sviluppo? E, soprattutto, cosa fare per iniziare a voltare pagina? Una risposta a questi interrogativi ha provato a darla l’economista Marco Simoni nel saggio dal titolo “La questione romana” pubblicato sull’ultimo numero della rivista Il Mulino, nel quale l’attuale presidente della Fondazione Human Technopole ha mosso la sua analisi da una considerazione di fondo: che “Roma, caso unico in Europa, negli ultimi dieci anni è cresciuta molto meno della media nazionale”. Invece di trainare l’Italia, come era logico attendersi e come avviene di regola all’estero, dall’inizio della crisi economica del 2008 in poi la capitale ha rappresentato, più che altro, un peso per il resto del Paese.
Ma è anche per questa ragione – ha sottolineato Simoni – che ora è difficile, se non impossibile, immaginare che vi possa essere una ripresa complessiva del Sistema-Italia senza l’apporto fondamentale di Roma: “Paradossalmente siamo di fronte a una grande questione nazionale che però può trovare soluzione solo localmente”. Per mettere mano a quelle che l’autore ritiene essere le due principali problematiche con cui la città oggi è tenuta a fare i conti: quella economica da un lato e quella sociale dall’altro.
Due temi da prendere davvero per le corna, attraverso quella che Simoni ha definito nel saggio “un’alleanza per la crescita e l’inclusione”, da fondare su tre assi. Primo: “Elaborare piani di trasformazione di lungo periodo capaci di dare certezze al settore privato e di mobilitare le competenze e i capitali di cui la città è ricca”. Secondo: “Far tornare alla primaria responsabilità del pubblico la gestione delle questioni sociali, avendo innanzitutto come obiettivo la diffusione e messa a sistema delle molte esperienze sviluppate a Roma negli ultimi anni in modo spontaneo e offrendo nuovi strumenti di emancipazione”. Terzo: “Immettere nella gestione della città e nell’ideazione di piani e nuove infrastrutture fisiche e sociali tassi elevati di innovazione, importando modelli già sperimentati altrove ma ancora assenti dalla gestione di Roma”.
Trasformazione che inevitabilmente deve passare dall’amministrazione di piccola scala ma anche da piani grandi e ambiziosi di cui la città deve tornare a nutrirsi. Una dimensione, quest’ultima, che è la vera assente dalle politiche per Roma dell’ultimo decennio in cui si è detto di voler puntare sulla risoluzione dei problemi di tutti i giorni prima di volersi concentrare sui progetti alti, con la conseguenza che non siamo riusciti a ottenere né l’uno né l’altro. D’altronde, “al fine dell’inclusione sociale serve che una rinnovata crescita generi tanti e buoni posti di lavoro”. Ad esempio con piano pluriennali di trasformazione urbana – sulla falsariga di quanto avvenuto a Milano nell’ultimo ventennio – per i quali, ha sottolineato Simoni, sono già previsti i necessari meccanismi come “le partnership pubblico-private, la finanza di progetto, le concessioni”.
Tra le idee che l’autore ha sollevato nel suo saggio c’è quella di promuovere un parco dell’innovazione nel quartiere Ostiense “che faccia leva su quanto di innovativo sta già nascendo attorno all’università di Roma Tre”. Un polo che dovrebbe focalizzarsi sulle energie sostenibili e sulle tecnologie di contrasto e adattamento alla crisi climatica, facendo anche perno sulla presenza di eccellenze del mondo dell’energia, come Eni ed Enel, e di “dipartimenti ingegneria, fisica e chimica di primissimo piano”. E poi ancora la cultura con il progetto mai decollato di rendere il quartiere Flaminio un vero e proprio parco della musica e delle arti. Senza contare le industrie del cinema, della finanza verde e dell’aerospazio: “Lo sviluppo scientifico e tecnologico deve essere in cima all’agenda perché è la politica a favore della scienza a essere, oggi, la principale portatrice di crescita e futuro”.
Idee e analisi che il prossimo sindaco della città eterna, chiunque esso sia, e la politica tutta dovrebbero tenere ben a mente. Perché quella della capitale, evidentemente, non è solo una questione romana ma, a tutti gli effetti, nazionale. E il tempo è quasi scaduto.