Le risorse del Recovery Fund potranno aiutare il rilancio dell’aerospazio e della difesa italiani, ma non basteranno. Servirà una riforma di “sistema”, dalla legge 808 del 1995, fino a un apposito “Piano di settore”, che dia accelerazione alla realizzazione di prodotti così da generare lavoro, garantire capacità alle Forze armate e assicurare competitività al Paese nei contesti internazionali. È il quadro descritto da Carlo Festucci, segretario generale della Federazione delle aziende italiane per l’aerospazio, la difesa e la sicurezza (Aiad), che Formiche.net ha raggiunto per commentare le proposte presentare dal Mise alla presidenza del Consiglio sul Recovery Plan, il piano nazionale di spesa delle risorse (209 miliardi) che arriveranno dall’Unione europea. Il documento del dicastero propone 12,5 miliardi per il settore dell’aerospazio, difesa e sicurezza in sei anni. Numeri importanti, da inserire nei lavori in corso per altre iniziative.
Quale è la situazione che sta vivendo l’industria italiana dell’aerospazio e difesa?
È sotto gli occhi di tutti: ci troviamo di fronte a scenari economici senza precedenti. Abbiamo un bisogno forte di rilanciare il settore dell’aerospazio, difesa e sicurezza, perché più di ogni altro si presta a sostenere la ripresa del Paese. Ha programmi definiti e risorse per coprirli. Produce tecnologie innovative che prescindono dal settore puramente abilitante. Parliamo di tecnologie abilitanti per tante applicazioni in svariati ambiti. Insomma, è un settore che può partire rapidamente, a una condizione.
Quale?
Che i programmi già identificati vadano avanti. Che le risorse previste siano effettivamente stanziate. Altrimenti è impossibile produrre effetti positivi.
Si parla per questo di un Piano di settore.
Sarebbe strategico, perché ci consentirebbe di mettere in piedi un meccanismo che faccia procedere rapidamente dalla fase di ricerca alla realizzazione di prototipi, cosa oggi molto difficile. Il Recovery Fund può in parte rispondere fornendo risorse aggiuntive (comunque su programmi trasversali), ma serve un sistema che permetta la veloce attivazione dei fondi.
Come funzionerebbe il Piano di Settore?
Ricorderà il cosiddetto “Piano Zanetti” degli anni 90. Si tratterebbe di riprodurre lo stesso schema: un piano che identifica le capacità tecnologiche delle aziende e i bisogni operativi delle Forze armate, e che dunque mette in piedi programmi per poter conseguire i risultati attesi, attraverso fondi ad hoc che possano essere ben controllati per far arrivare i finanziamenti. Il Piano Zanetti lo fece per il settore aeronautico, e permise di rilanciare l’Aeronautica italiana con molti programmi, tradottisi in prodotti ancora oggi di riferimento per la Difesa. Ora bisogna farlo per tutto il comparto.
In prospettiva, l’idea sostenuta anche dal ministro Guerini è quella di una legge pluriennale.
È importantissima. Il settore ha bisogno di certezza programmatica e finanziaria, altrimenti naviga a vista sulla realizzazione dei programmi, senza sapere se può andare avanti oppure no. Dopo il lockdown, Francia e altri Paesi (nostri partner e competitor) hanno messo a disposizione dei rispettivi comparti risorse importanti. Se non lo facciamo anche noi, gli altri ci supereranno sui mercati internazionali, con effetti deleteri per le nostre esportazioni che oggi ci consentono di sopravvivere e restare competitivi. Dopo il lavoro sul G2G (gli accordi governo-governo, ndr) e sulla banca per l’export, occorre arrivare a un piano che generi accelerazione sulla realizzazione di prodotti.
Dal settore industriale si chiede in particolare di procedere sui grandi programmi.
Certo, a partire dal Tempest, il velivolo di sesta generazione. Non è solo un aeroplano, ma un sistema complesso e avanzato. Occorre procedervi con rapidità. Non si può continuare a ragionare sui titoli, senza metterci le risorse. I grandi programmi sono essenziali per questo tipo di industria. Proprio per questo si parla di un Piano di settore o della riforma della 808.
Ecco, arriviamo alla 808, da 35 anni riferimento importante per il settore. Che riforma?
Una riforma che non sia solo legislativa, già di per sé complessa. Occorre tornare al concetto di disponibilità di fondi, di grant e del ritorno delle royalty (restituite dalle aziende che hanno ricevuto finanziamenti, ndr). Oggi la 808 è diventata un mutuo. L’esigenza è invece di risorse dinamiche e definite, che ci permettano di trasformare i programmi in prodotti. Anche questo è un elemento di un sistema più ampio.
E il Recovery Fund?
È un altro elemento di questo sistema, un pezzo utile ad avere un po’ più di risorse. Da solo certamente non basterà. Occorre infatti far ripartire tutti i programmi, immediatamente, così da dare lavoro alle aziende italiane. I progetti già ci sono, a prescindere da Recovery Fund o 808, il problema è che i finanziamenti sono bloccati. Eppure, sbloccarli permetterebbe di far ripartire tutto il sistema, di produrre tecnologie, occupazione e capacità intellettuale.
Perché i finanziamenti sono bloccati?
Non saprei. Forse è da imputare al ventre molle del Paese, alla burocrazia da snellire. Faccio l’esempio della 808: ci sono i programmi e le risorse, ma non c’è ancora una commissione che giudichi i progetti; ciò significa che non si può riunire per verificare i bandi; la conclusione è che i programmi non partono. Il governo si sta dando da fare. L’attenzione verso questo settore c’è sempre stata e continua a esserci, ma le intenzioni non bastano. Al Mise il sottosegretario Manzella sta portando avanti un lavoro straordinario, ma bisogna fare di più come sistema.