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Lotta agli Shabaab. Cosa spinge e cosa frena i droni di Trump sul Kenya

C’è una notizia, data tramite indiscrezioni raccolte dal New York Times, che ha rapidamente preso vento nel dibattito politico statunitense: la possibilità che il Pentagono ampi al Kenya il raggio di azione delle missioni contro al Shabaab, il gruppo qaedista somalo noto in Italia anche per aver rapito la cooperante Silvia Romano. I nodi sono sia politici che tecnici, vediamo di analizzarli con ordine.

Sul piano politico è una decisione complessa per l’amministrazione Trump, e infatti davanti alle richieste dei militari, il primo a frenare sarebbe stato il segretario Mark Esper. Poi ha ceduto, ma la riluttanza iniziale era forse legata al fatto che immaginava quanto sarebbe stato difficile ottenere il semaforo verde dallo Studio Ovale? Donald Trump è il presidente che si è posto come obiettivo — da rivendere in campagna elettorale — la fine di quelle che chiama “endless wars”, le guerre infinite. Il paradigma è l’Afghanistan, ma anche l’impegno in Somalia non è da meno. Complicato fare in modo che questo quasi-naturale ampliamento del conflitto contro i qaedisti somali non venga letto da una maggioranza di statunitensi disattenti alle vicende del mondo come un ulteriore coinvolgimento militare Usa. Roba detestata da molti, in primis dagli elettori di Trump che tutto sono fuorché guerrafondai. America First si basa su questo: basta spendere soldi per guerre lontane dagli Stati Uniti.

L’allargamento del fronte riguarderebbe l’invio sul Kenya di droni armati, non soldati — che per altro sono già presenti  nella base di Manda Bay, colpita nel gennaio scorso da un attacco dei miliziani somali in cui sono morti tre statunitensi (un militare e due contractor). Però quei droni rappresentano anche un altro simbolo: si ricorderà la copertina con cui nel settembre del 2013 l’Atlantic contestava l’uso dei velivoli senza pilota da parte del presidente Barack Obama — nemico giurato della narrativa di Trump e dei suoi fanatici. Si parlava delle operazioni contro i terroristi qaedisti sotto una doppia ottica: primo, i danni collaterali (verificati in più di un’occasione in cui gli attacchi sono andati fuori target: restando sul recente locale, il 2 febbraio un drone americano in Somalia ha ucciso una donna che si trovava nella sua abitazione, mentre cinque uomini e un bambino sono stati uccisi in un minibus in un altro attacco fuori bersaglio il 10 marzo); secondo, la questione etica di un governo che decide arbitrariamente l’uccisione di una persona (fosse anche un comandante jihadista). In sette anni poco è cambiato. E Trump era uno che criticava Obama e l’uso dei droni.

Dagli aspetti politici si passa dunque a questioni tecniche. Uno: i droni americani dovrebbero operare solo nell’area delle contee orientali di Garissa e Lamu, dove si concentrano le operazioni transfrontaliere degli Shabaab. Due, le missioni: i raid potrebbero essere proattivi, ossia compiere killing mission come succede già in Somalia, eliminando quelli che intelligence e forze speciali, sul campo e da remoto, considerano obiettivi di rilievo. Tre, il meccanismo di azione: prima di ogni raid il governo kenyota dovrebbe essere avvertito (questo non succede in Somalia) e gli attacchi discussi tramite l’ambasciata Usa di Nairobi. Complicazioni anche superabili.

Un aspetto è certo: Shabaab è in cima alla lista delle attenzioni del counter-terrorism americano perché sta diventando via via più forte. I combattenti hanno il controllo della valle del Giuba, ma hanno anche postazioni nel sud del paese, dove sfruttano la conoscenza di un territorio impervio per organizzazioni logistiche. Sono cinquemila (ma forse di più, fino al doppio) i miliziani su cui può contare l’organizzazione, che ormai più che al controllo territoriale è vocata alla guerriglia e ai traffici del contrabbando, e a rapimenti e sequestri (come quello di Romano) da cui incassare i soldi dei riscatti per sostentarsi. La volontà del Pentagono di aumentare l’ingaggio si leggerebbe proprio al fatto di Manda Bay di gennaio: la volontà del decisore politico deve invece fare i conti con Usa2020. Si potrebbe sfruttare quell’episodio per evocare la necessità di un aumento del coinvolgimento al Kenya a protezione degli uomini statunitensi, ma ci sarà sempre qualcuno negli Usa che chiederà piuttosto di far rientrare tutti i soldati — perché gli Shabaab sono in Somalia, non nell’Iowa. Ma che dire se un militante addestrato dai jihadisti somali fosse protagonista di un attentato negli Stati Uniti?

 

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