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Siria, il grande affare della ricostruzione spiegato da Valori

La prospettiva della Siria, oggi, non è più quella di un ritorno, sia pure faticoso, ad un vecchio Stato unitario pre-2015, ma di permanere come un territorio molto frazionato; il che comunque risponde a una logica di futura compartecipazione di vari Paesi al grande affare della ricostruzione.

Le operazioni belliche su territorio siriano sono oggi pre-condizioni di una futura presenza per la ricostruzione di vari attori strategici, non sono solo semplici azioni di guerra per la riconquista di questo o quel territorio, ma azioni per arrivare ad una egemonia che potremmo definire “post-nazionale”.

Ulrich Beck ha parlato, in questo senso, nel suo articolo intitolato War in Peace, on Post-National War, già nel 2005, del rapporto tra coscienza post-nazionale e cosmopolitica, tipica oggi dell’Occidente, nel momento in cui si decide la guerra in uno specifico luogo della cosmopoli.

Si fa la guerra, spesso una unending war come oggi gli Usa, ma poi si fa una nuova guerra per isolare il conflitto di tipo 1 dal resto del sistema globale.

Certo, le motivazioni dei vari attori che hanno iniziato la guerra in Siria erano, lo sappiamo bene, molto più terrene e immediate ma, in ogni caso, se l’Occidente decide una guerra nelle sue periferie, deve sempre giustificarla globalmente, perché questo è ormai il suo codice di azione e la giustificazione che deve “vendere” al suo pubblico.
Sempre più faticosamente, peraltro.

L’Oriente non deve giustificare le sue guerre. Le fa e basta. Ma anche Cina e Russia stanno molto attente a non allargare a macchia d’olio gli effetti di un conflitto regionale sul resto del sistema degli equilibri internazionali.
Israele, in Siria, continua con i suoi attacchi aerei, soprattutto per evitare l’attrito tra Hezb’ollah, Iran, alcuni reparti siriani e le sue postazioni, che sono fondamentali, nel Golan.

Sono state colpite dall’aviazione e dai missili di Gerusalemme le postazioni per la costruzione di missili, a Al-Safirah, vicino a Aleppo, l’11 settembre scorso, postazioni probabilmente in mano a Hezb’ollah.

In quel caso le fonti del regime di Damasco hanno affermato che gran parte dei missili israeliani sono stati abbattuti dalle forze antiaeree siriane.

È stata attaccata dall’aviazione israeliana anche la base T-4, nella provincia di Homs, con una probabile partenza dei jet di Gerusalemme dalla base Usa di Al-Tanf, al confine iraqeno-giordano.

Peraltro, alcuni analisti di logistica militare affermano che gli attacchi mirati di Israele alle postazioni missilistiche di Hezb’ollah siriane e sul Golan hanno ormai del tutto inibito l’Iran al trasporto di armi, sia dentro la linea Teheran-Beirut che da quella linea verso le alture del Golan.

Altri attacchi israeliani si sono registrati a Al-Mayadin e a Abu Kamal, ma in totale gli attacchi di Israele sarebbero sei, almeno dall’inizio del mese di settembre 2020 ad oggi. Ad Abu Kamal vi era anche un deposito di munizioni.

A tutto ciò corrisponde, nelle more degli attacchi, ma anche della attuale ricostruzione del “califfato”, la richiesta, da parte di Bashar el Assad, di un rapporto più stretto con i russi, con un incontro, il 7 settembre, tra Bashar, il vice primo ministro russo Yuri Borisov e anche con il ministro degli Esteri Lavrov, dove i due Paesi hanno riaffermato la loro comune lotta contro il “terrorismo”, ma sottolineato il loro sforzo per la ricostruzione della Siria.

Mosca è più interessata a staccare il tagliando della egemonia sulla ricostruzione che a sostenere militarmente Assad per la sua piena riconquista, improbabile e comunque futura e molto costosa, da parte di Damasco, di tutto il territorio siriano sia contro il jihad che contro le varie altre forze, legate sempre ad operatori esterni.
Il “califfato” è presente in varie parti, oggi, del deserto centrale siriano.

Ci sono già stati alcuni attacchi suicidi dell’Isis per riprendersi alcuni territori dopo la “Battaglia di Baghouz” del marzo 2019, che ha fatto anche cessare la presa del “califfato” anche sull’Iraq.

Con quali mezzi? Gran parte del molto denaro che era a Raqqah, capitale del suddetto Isis, è ancora nel possesso dei vari capi regionali, che però hanno ancora un oscuro, ma probabilmente forte, legame militare e politico tra di loro.
Il passaggio del denaro è stato, soprattutto, quello, all’inizio, da Raqqah verso Abu Kamal, ancora una volta questa località ritorna, ultimo bastione dell’Isis prima della sconfitta suprema, ma non finale; ma ora il “califfato” attacca a Deir-ez-Zor, Raqqah, Homs, a Shaddadi a sud di Hasakah, colpendo sia l’esercito di Bashar el Assad che le Forze Democratiche Siriane. Solo da pochi giorni le forze russe hanno riconquistato, togliendoli al “califfato”, i pozzi gasieri di Doubayat, a sud di Sukhnah, nella provincia di Homs. Poi, vi sono stati altri attacchi del sedicente Isis contro le milizie sciite ad ovest dell’Eufrate.

Ma quello che è più importante è stato l’attacco di varie tribù (sunnite) riunite dai capi della tribù degli Aqidat, contro le truppe curde e soprattutto contro le Forze Democratiche Siriane.

Ciò è avvenuto dopo gli scontri a Jajsh Aqidat, ma c’è stata anche una minaccia, nemmeno troppo velata, del Coordinamento di Baghouz verso le Forze Democratiche Siriane, per costringerle a porgere le loro scuse per il loro comportamento nell’area, soprattutto per quel riguarda molti cittadini di Baghouz oggi internati nei campi organizzati dalle Fds a direzione curda. Le tribù contano davvero, gli eserciti “stranieri” meno.

È la logica del vecchio proverbio beduino: “Io contro mio fratello, mio fratello e io contro mio cugino, mio fratello, io e mio cugino contro lo straniero”.

Intanto, le Forze Al Qods iraniane sostengono, anche materialmente, le defezioni, sciite o meno, di elementi già appartenenti alle Forze Democratiche Siriane, senza che nessun sostenitore occidentale dello SDF si ponga il problema.

Le tribù principali curde sono oggi sette, con affiliazioni religiose di varia origine, tra Yazidi, Yarsani (la più antica religione curda) Alevi e, ovviamente, sunniti.

Comunque nella tradizione curda c’è anche una notevole minoranza sciita, i curdi faili, circa 1,5 milioni, che stanno tra i monti Zagros e i due confini siriano e iraqeno. Ma che ormai vivono anche a Baghdad, Diyala, Wasit, Missan e Bassora.

Sono stati sempre poco affini al partito Baath, sono spesso ricchi e con posizioni di rilievo nelle comunità commerciali delle città dove risiedono, ma hanno avuto un ruolo non trascurabile nella stessa costituzione del nazionalismo curdo.

Poi ci sono gli Shabak, soprattutto curdi iraqeni, che parlano un dialetto iraniano e vivono in comunità religiose (ta’ifa) nell’area di Ninive.

Gli antenati dei curdi Shabak sono, quasi tutti, seguaci del mistico curdo Saif-ad-Din Ardabili. Uomo legato all’ordine sufi di Zahed Gilani, gli Zahedieh, Ardabili crea una tradizione mistica in gran parte legata alla identità curda, anche se nessun ordine sufi si lega davvero a queste “apparenze”.

Ecco, se non si studiano le linee di sviluppo del misticismo islamico, ma anche alawita (che è una espansione moderna del sufismo sciita) e cristiano, non si capisce nulla del frazionismo arabo mediorientale e della vera “via dell’incenso” che oggi separa i vari territori del Grande Medio Oriente, e non solo.

Le Tariqat sufi, sunnite e sciite, legano aree per noi ben lontane tra di loro: il Corno d’Africa si collega all’Iran, dal Sudan agli Amazigh del deserto maghrebino, dall’India verso l’Egitto.

In Turchia, lo ricordiamo, gli ordini sufi sono stati proibiti da Atatürk, nel 1925, ma sono andati avanti lo stesso con scarsi fastidi legali.

I Bekhtashi albanesi sono stati tollerati, anzi sono divenuti potenti perfino sotto il regime di Enver Hoxha.
Il maggior ordine sufi è, oggi, la Qadiriyyah, legata alla tradizione del primo sufi riconosciuto dalla tradizione islamica, Abd Al Qadir al Jilani, qui siamo al nostro anno mille, e a Baghdad. Probabilmente era curdo.

È un ordine ricchissimo, per le vie della finanza informale araba, e opera ovunque. Nel Sudan c’è anche la Khatimiyyah, ovvero la Mirganiyah, per non parlare della setta del Mahdi. Anche Omar al Mukhtar, ben noto alle forze di occupazione italiane in Libia, era un Qadiriyyah, ordine sufi da cui si evolve la società segreta della Tijanijah, che si espande soprattutto tra gli Amazigh, nel nostro settecento, e che ha molti tratti sufi.

Poi ci sono i Fulani, che amano molto anche il jihad, ma in modo diverso da quello di Al Qai’da al-Sulbah e delle altre recentissime organizzazioni similari.

Ecco, se invece di studiare come si deve ingozzare l’oca islamica per farla diventare addicted al mistico rituale occidentale della scheda in un’urna, nemmeno lontanamente foscoliana, si fosse studiato invece l’esoterismo, anche politico, delle sette sufi e delle varie confraternite, avremmo avuto molti meno problemi. Politici e terroristici.

Come mi disse un vecchio “maestro” sufi afghano, “non mandateci telefonini e computer, li abbiamo già, li sappiamo usare meglio di voi, mandateci solo un uomo santo, e lo ascolteremo con rispetto”. Il laicismo materialista distrugge, soprattutto, i suoi adoratori. Ma ritorniamo alla Siria.

L’Isis, il sedicente “califfato”, continua, sempre in Siria, gli assassini mirati contro gli uomini sia di Assad che delle Forze Democratiche Siriane.

Il gen. Talal Qassem è stato assassinato, ed è uomo di Assad, poi sono stati colpiti due ufficiali della 4° Divisione, sostenuta e armata dagli iraniani, poi è stato eliminato anche Muhammad Jamal al-Jamal, molto legato ai russi e dirigente del Comitato di Deraa, e ancora i jihadisti hanno ucciso Muhammad Qasim Al-Yunis, reclutatore delle Forze Al Quds iraniane, sempre a Deraa.

Un livello di intelligence territoriale “califfale” notevole, quindi, che fa presumere future operazioni ben più rilevanti.
È dal 2019 che il “califfato” si sta riorganizzando, da al-Sukhna nella provincia di Homs al-Mayadin nell’area di Deir-ez-Zor, Ma’adan vicino a Raqqa, verso il deserto di Al-Suwaida quello di Al-Buqamal, di Al-Mayadin e al-Salamiya e al-Zakf, nell’area occidentale del deserto di Anbar.

Il triangolo primario del “califfato” è oggi quello tra Al-Sukhna, al-Mayadin e Ma’adan, e dovrebbero essere oggi circa 45.000 militanti.

Sono stati eliminati, ritornando a parlare di generali baathisti, anche Firas Al-Nasaan, dirigente dei Servizi segreti siriani dell’Aviazione, il vero nucleo dell’intelligence di Damasco; e altri dirigenti del Servizio di Assad.
Il che implica una pericolosa penetrazione delle strutture di Damasco da parte del jihad, cosa che nemmeno Mosca ha saputo evitare.

Poi ci sono stati degli scontri, politicamente pericolosissimi, tra la 8° Brigata di Assad, in mano alle forze russe (come peraltro tutti i corpi operativi dell’esercito siriano) contro alcune tribù beduine, sempre nella provincia di Deraa.
Che è, evidentemente, già un’area di penetrazione profonda del “califfato”, ma anche delle sue reti finanziarie, politiche, religiose che, apparentemente, non fanno oggi parte evidente dell’Isis.

Questa porosità informativa e militare del regime di Assad è dunque estremamente pericolosa, e potrebbe far precipitare sia la pax russica che, soprattutto, i progetti, già definiti, di investimenti nella “Nuova Siria”, e soprattutto da parte cinese. E quindi si capisce bene chi ci sia dietro, se c’è qualcuno dietro.

Intanto, gli Usa mandano soprattutto dei droni, che hanno ucciso due comandanti di “Hurras al-Din”, ovvero i guardiani della religione, gruppo affiliato a Al Qa’eda ma anche avverso alle altre storiche filiazioni della rete di Bin Laden in Siria, e i due comandanti si chiamavano Sayyaf al-Tunisi e Abu Hamza Al-Yamani. La guerra col telecomando, lo zapping strategico. Non basterà.

Le due operazioni Usa sono state registrate dai russi nell’area di Idlib, ma è probabile che il livello di contrasto tra questa organizzazione qaedista e le altre, quelle storiche, non abbia favorito, appunto, Haya’t Tahrir Al-Sham e le successive reti binladiane.

La Rete di Hurras al-Din è comunque nota per avere stabili rapporti con i Servizi turchi. E ha operato, nel 2018, per mediare tra l’Esercito di Liberazione Siriano, nell’area di Aleppo, e nato peraltro da una costola di Ayat Tahrir al-Sham, e lo stesso Ayat Tahrir al-Sham.

Il suddetto gruppo filo-turco ha operato recentemente nell’area di Hama e, talvolta, a Idlib. La Federazione Russa ha operato, in Siria, con successo ma, soprattutto, e indirettamente, organizzando le strutture dell’esercito di Bashar el Assad, controllandolo strettamente.

Il frazionismo dell’esercito baathista di Damasco è ben noto. Nel 2018-2019, lo Stato Maggiore di Bashar controllava direttamente solo 25.000-30.000 soldati e ufficiali, su un totale di oltre 200.000 elementi.

Ecco quindi l’utilità delle milizie sciite non siriane, come gli Hezb’ollah libanesi, gli Ali Zulfikar iraqeni e pakistani, nati direttamente dagli sforzi islamisti della famiglia Bhutto, la Brigata Abu Fadl al Abbas, nata in Siria soprattutto per prevenire le attività jihadiste di profanazione delle moschee sciite (e delle chiese cristiane) poi, naturalmente, la Brigata Al Quds dei Pasdaran iraniani, infine i Fatimiyoun sciiti afghani e i membri della Brigata Zeinabiyoun pakistana. Mosca ha la forte necessità di avere l’Iran in campo in Siria, ma non vuole certo lasciare in mano a Teheran il futuro di Damasco.

Anzi, molti segnali di intelligence ci dicono che i russi sapevano, ma non hanno comunque mosso un dito, di alcune operazioni di altri attori regionali contro i Pasdaran e le altre Forze comandate dagli iraniani.

Quindi, il progetto russo è quello di avere una forza baathista mobile, molto centralizzata, con una quota rilevante di Corpi Speciali e una relativa autonomia dai russi, soprattutto a sud e a est del territorio siriano, nei confronti di operazioni di penetrazione sia jihadiste che di forze più o meno regolari, comandate da attori regionali o globali.
Fin dal 2015 i russi hanno creato il 4* Corpo siriano, con un nucleo del vecchio esercito di Bashar el Assad e una aliquota delle Forze di Difesa Nazionale a comando iraniano, oltre a alcune brigate del partito Baath.
Ovvio quindi che il secondo avversario dei russi è, in Siria, un alleato: l’Iran. Putin ha dunque correttamente calcolato la sua equazione strategica: l’occidente non poteva opporsi materialmente al suo intervento in Siria.
E parte del suo intervento in quel Paese era finalizzato alla deterrenza verso gli occidentali.

Quindi molte operazioni di Anti Access-Area Denial (A2AD) e controllo pieno dello spazio aereo. Poi, soprattutto oggi, l’uso continuo, da parte di Mosca, delle Pmc, Private Military Company, che permettono una maggiore elasticità nell’uso della forza e consentono, inoltre, di “fare politica” sul territorio. C’è anche il problema del petrolio, che non può mai essere trascurato.

Alla fine del giugno 2020, la Delta Crescent Energy, una società nordamericana, ha concluso un contratto con le Forze Democratiche Siriane a guida curda, ma anche con la garanzia, da parte della dirigenza curda, che i russi avrebbero potuto beneficiare dell’accordo; e con eventuali occasioni future per i russi di esplorazione ed estrazione del petrolio locale.

Anche Erdogan ha offerto ai russi la possibilità di modernizzare i campi estrattivi di Deir-ez-Zor, per ridare fiato all’economia siriana.

Nella Siria dell’Est opera già la compagnia Mercury, di proprietà di Yevgheni Prigozhin, un imprenditore amico personale di Putin, ma intanto gli operativi di Mosca trattano stabilmente con il Consiglio Tribale Siriano, oltre che con le tribù filo-iraniane dei Nawaf al-Bashir.

I russi sanno, diversamente da altri, che gli stati mediorientali sono composizioni mobili di tribù, che sono la vera entità politica di base.

E ciò accade mentre gli Usa se ne vanno dalla buffer zone siriana, ovvero il Peace Corridor oppure ancora il Security Mechanism, posto sulla parte siriana del confine sirio-turco, e quindi entra la Cina.

Gli aiuti umanitari di Pechino a Bashar el Assad sono iniziati nell’agosto 2016 ma, naturalmente, la Cina sottolinea sempre il principio di non-interferenza nei conflitti, e negli affari interni degli altri Stati.

Ma, ricordiamo, Pechino ha mostrato una certa freddezza anche nei confronti delle operazioni missilistiche e aeree di Mosca in Siria, pur essendo, la Cina, un aperto alleato e amico del regime di Bashar el Assad.

L’Iran ha cercato spesso l’appoggio cinese per il suo impegno in Siria, e tenta anche di poter entrare nel sistema dello Sco, Shangai Cooperation Organization. E questo sostegno cinese si manterrà anche durante la futura, probabile, offensiva delle forze di Assad verso Idlib.


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