Nel profluvio di termini inglesi che stanno da anni impastando la nostra lingua ne compaiono di sempre nuovi e fantasiosi che probabilmente fanno dare di gomito agli anglofoni veri, divertiti dai nostri sforzi di impacciati indigeni alla ricerca di uno smarcamento dalla povera lingua di Dante. Infatti, evidentemente, questa non ci basta più, spiegando così anche il fatto che nessuna autorità nazionale si senta in dovere di tutelarla, a differenza ad esempio di quel che avviene in Francia, impegnata a difendere con le unghie e coi denti la francofonia in Africa e nel mondo dall’assalto dell’inglese. Per noi si tratta di buffo orgoglio gallicano, di una ridicola difesa della grandeur alla quale reagiamo con lo stesso infastidito risolino di chi ascolta barzellette che non può capire. Che la lingua sia una risorsa essenziale per mantenere la propria sovranità culturale, e con essa tutelare i nostri interessi, non passa invece per la testa a nessuno. O magari si, e forse è questo il problema.
Si tratta, spiace dirlo, di un triste segno dei tempi nei quali la nostra cultura viene considerata una palla al piede, da rimuovere per proseguire sulla via del progresso. Ci aveva preceduto la Chiesa Cattolica mezzo secolo fa, rinunciando al latino nella sua liturgia e ne vediamo i frutti con una frammentazione e una perdita di identità assolute; molto più dimessamente, senza concilivaticanisecondi ma sulle note del rock e del rap d’oltreoceano, lo stiamo facendo anche noi da decenni, dopo avere smantellato una scuola superiore di eccellenza mondiale fino al paradosso di mandare i nostri figli ad abbeverarsi direttamente alla fonte della lingua di Shakespeare presso famiglie della bassa e media borghesia britannica, promosse a titolari di cattedra di english per semplice imposizione delle mani. Che la Regina Elisabetta abbia a suo tempo promosso baronetti i Beatles appare ovvio e doveroso, quindi, vista la clientela che i loro gorgheggi hanno procurato agli UK tra gli altrofoni mondiali, alla disperata ricerca di una chiave per capire la profondità dei loro testi. Ma andiamo oltre.
In politica, l’uso di termini come jobs act, dual use, lock down, fake news, gender fluid, smart working, gay friendly, fino addirittura a “Ministero del welfare” che una volta sarebbero stati cassati con la matita blu da qualsiasi documento ufficiale, sono di uso comune anche nei discorsi alla nazione di fine anno e negli appelli al popolo ad ogni stormir di DPCM. Non portano nessun valore aggiunto, anzi, ma hanno spesso il pregio dell’indeterminatezza che non lascia tracce nelle coscienze e consente di non urtare le suscettibilità di nessuno con i significati precisi e definitori che avrebbero le corrispondenti parole della lingua più espressiva del mondo, la nostra.
In questo contesto, un caso di particolare rilevanza è rappresentato dal termine soft power, oggetto recentemente di una “Soft power conference” (conference, appunto, non conferenza) a fine agosto, organizzata a Venezia da Francesco Rutelli, con l’obiettivo di rilanciare le idee del politologo americano Joseph Nye, autore di un libro innovatore del pensiero politico contemporaneo, “Soft Power: The Means to Success in World Politics”. Una conferenza importante, a quanto pare, se è vero che alla stessa è giunto l’autorevole saluto del presidente della Repubblica che ha auspicato “una riflessione… sulla capacità di proporre modelli, di convincere ricorrendo all’esempio e non alla forza”, come sarebbe a suo dire provato dal modello proprio delle democrazie e applicato dall’Unione europea in nome dei principi di solidarietà e leale collaborazione.
Ma cosa significa effettivamente Soft Power? E si tratta sempre di un potere “benevolo”? In ogni caso, l’Italia ne è dotata?
Con il livello di approssimazione con il quale si possono definire i neologismi, soprattutto se in quella lingua per iniziati che è l’inglese, soft power potrebbe essere considerato il potere di persuadere, convincere, attrarre e cooptare, tramite risorse intangibili quali cultura, valori e politica. Peraltro, esistono valori, culture e istituzioni politiche tutt’altro che benevole e capaci di persuadere, convincere, attrarre e cooptare senza ricorrere manifestamente alla forza, almeno a quella fisica e palese, prediligendo però le più prudenti ed efficaci azioni di disinformazione e propaganda, rese irresistibili da una capacità di accesso agli strumenti di comunicazione mai verificata prima di oggi nella storia dell’umanità.
In fin dei conti, quindi, non è solo prerogativa dei “buoni” l’esercizio del Soft Power, anche se in questi casi non lancia bombe, non insanguina le strade, non decapita e non trattiene ostaggi, almeno per quel che ci è dato di vedere con i nostri occhi. Quanto poi alla natura delle fake news (bufale per gli italofoni) che utilizza per farsi strada nelle idee e nelle paure della gente, il dibattito sulla loro veridicità o meno rimarrà aperto fino alla fine dei tempi lasciando dubbi o certezze ai diversi schieramenti, semplicemente sulla base dei propri pregiudizi, o valori.
Insomma, Joseph Nye non aveva presumibilmente la velleità di inventare nuove categorie del pensiero politico, limitandosi invece a una razionale strutturazione concettuale di quella che è da sempre una metodologia di influenza sull’opinione pubblica, tutt’altro che esclusiva delle tolleranti e moderne democrazie occidentali.
Ma non c’è dubbio che con la sua “fatica” ha fornito un utile strumento di giustificazione all’irrilevanza di coloro che, come l’Italia minimalista in politica estera che stiamo dolorosamente sperimentando, erano alla ricerca di qualcosa che nobilitasse la propria vocazione alla resa. Un alibi per l’inazione, insomma, che lasci intendere che non c’è il vuoto, ma una scelta intelligente e consapevole dietro alla rinuncia ad essere presenti nell’agone internazionale. Un agone nel quale non si dovrebbero muovere solo abbronzatissimi ministri degli Esteri senza esperienza, ma diplomatici consapevoli di essere portatori di una linea politica chiara e duratura nel tempo, imprenditori che uniscano alla ricerca del profitto lo spirito “militante” di chi lavora anche per il bene del proprio paese, operatori culturali desiderosi di promuovere l’assoluta eccellenza del nostro bagaglio linguistico, storico e tradizionale. Perché è questo il Soft Power che conta, non quello dei buoni sentimenti che sono alla portata di tutti. Di tutti, ripeto.
Il Potere, inoltre, di chi si appoggia anche sulla disponibilità di uno strumento militare credibile, senza il quale il castello di carte delle nostre illusioni non può non cadere. Questo fanno quei paesi democratici come la Francia, a cui certamente faceva riferimento il presidente della Repubblica nel suo saluto, che non si peritano di convincere e attrarre con i propri principi liberali, impugnando però sotto il tavolo delle trattative e del dialogo uno strumento militare che dal Sahel, alla Libia, al Medio Oriente non si limita a schierare ospedali da campo e a fornire addestramento e addestratori a chi sa già come combattere.
Si tratta di un Soft Power che esercitavamo anche noi, nel passato che si allontana sempre più, quando ad esempio i nostri militari in Somalia, Libano, Balcani o Afghanistan si sentivano espressione di un Paese che li proteggeva e al tempo stesso affascinava gli altri. E questo, proprio per la lingua che stiamo snobbando, per la forza economica che abbiamo perso, per la storia incomparabile che consideriamo politicamente scorretta e non facciamo studiare più, per quel misto di religione e cultura che rendeva sovrapponibili i termini di Italia e Roma, quest’ultima conosciuta anche nei villaggi del bush somalo e dei deserti afghani.
Cosa ci è rimasto di queste risorse per poter pensare di essere ancora capaci di esercitare una fascinazione credibile ed efficace ai fini dei nostri interessi come quella del passato? La profondità di pensiero dei nostri politici, il livello culturale dei nostri ministri, la solidità della nostra economia o la nostra plurimillenaria capacità di inventare, costruire e ricostruire, travolta dalle macerie che ancora sono disseminate nel centro Italia terremotato e sepolte nelle buche delle strade che gli altri ci hanno copiato (le strade, non le buche)?
Insomma, non c’è hard o soft power che tengano se non si procederà a una ricostruzione prima di tutto morale di un Paese che deve tornare ad avere fiducia in se stesso, ad essere orgoglioso delle proprie peculiarità che non hanno mai avuto a che fare con la rinuncia e il malaffare, contrariamente a quello che tutti ci dicono. Non è, poi, sottraendoci al confronto coi prepotenti che stanno facendo il bello e il cattivo tempo nel nostro mare, in nome di una autoreferenziale superiorità dei nostri principi democratici, che ci proporremo come riferimento per quanti, come noi, cercano di resistere ad un presente che non lascia troppe speranze per il futuro. E per far questo, un’attenta e approfondita riflessione sulle nostre capacità militari è irrinunciabile, anche se la questione continua tristemente a essere completamente assente dal dibattito politico, evidentemente più concentrato sui Sì e i No referendari e sul futuro delle classi politiche ora in sella che non sulla nostra sopravvivenza come società nazionale, degna di dire la sua in Europa e nel mondo.