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Quella lontana profezia di Tremonti sui Parlamenti svuotati di potere

Il 19 luglio del 1989, negli ultimi giorni del dimissionario governo De Mita sfiduciato da Craxi al Congresso dell’Ansaldo, Giulio Tremonti scriveva un articolo sul CorSera in cui prevedeva l’imminente avvio di un processo di svuotamento dei Parlamenti nazionali. La profezia del futuro ministro dell’Economia dovette apparire un racconto di fantascienza a chi la lesse al tempo, vista l’abitudine a dare per scontata la centralità del Parlamento nel sistema politico di una Prima Repubblica apparentemente inscalfibile.

Trentuno anni dopo, quando mancano pochi giorni alla celebrazione del referendum confermativo sulla riforma costituzionale che potrebbe ridurre di un terzo il numero dei membri delle Camere, la previsione di Tremonti è un dato di fatto acclarato, lamentato da entrambi i fronti referendari. Per i sostenitori del il taglio dovrebbe consentire al Parlamento di recuperare la centralità perduta grazie ad una presunta maggiore efficienza conseguente, per quelli del No, invece, rappresenterebbe il colpo mortale ad una democrazia parlamentare già pesantemente indebolita.

A prescindere dalle diverse soluzioni proposte per fermarlo, il processo di svuotamento del potere parlamentare va inquadrato per ciò che realmente è: un sotto-problema (uno dei più rilevanti) innescato da un macro-problema. Ad individuare quest’ultimo ci aveva pensato sempre Tremonti nell’articolo di più di un trentennio fa, parlando dell’inizio della crisi dello Stato-Nazione proprio in concomitanza con il 200esimo anniversario della Rivoluzione francese, culla della centralità dei Parlamenti.

Negli anni successivi, mentre la sua profezia si concretizzava fino a diventare una realtà eclatante dal 2011 in poi, l’ex titolare di via XX settembre è ritornato più volte sull’argomento, riproponendolo anche nell’Aula di Palazzo Madama nel 2017 con un disegno di legge costituzionale nella cui introduzione evidenziava come le Camere – con il “controrivoluzionario” declino dello Stato nazionale – avessero perso la loro “funzione classica”, ovvero quella di “garantire non solo la libertà, ma anche il governo nella libertà”.

Sembra quasi anacronistico parlarne in un’epoca in cui il ricorso allo strumento del decreto legislativo – da straordinario quale doveva/dovrebbe essere – ha finito per assumere i caratteri dell’ordinarietà, ma il Parlamento è stato per decenni il fulcro del sistema istituzionale italiano e proprio grazie a ciò la giovane Repubblica nata dalle macerie del Dopoguerra è riuscita a sopravvivere a scossoni altrimenti fatali.

Un ruolo non marginale dell’Aula “sorda e grigia” che il fascismo avrebbe voluto rendere (poi riuscendoci) “un bivacco di manipoli” è la massima garanzia del coinvolgimento di tutte le forze politiche legittimate dal voto popolare nelle decisioni più importanti. Lo sapeva bene Giulio Andreotti che, nonostante le sette esperienze a Palazzo Chigi e i trentadue incarichi da ministro e nonostante il suo indiscutibile anticomunismo, rimase sempre uno strenuo difensore della centralità del Parlamento, convinto com’era che all’interno di quel perimetro si potesse concedere al più grande partito dell’opposizione quella legittimazione – impossibile da riconoscere in un esecutivo a causa del posizionamento del Pci nel sistema internazionale della Guerra Fredda – necessaria per la tenuta istituzionale del Paese nei momenti più difficili.



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