Uno contro tutti, tutti contro uno. A quattro anni dalla storica cavalcata verso la Casa Bianca, Donald Trump ancora non si riesce a etichettare. Ufficialmente è parte dell’establishment, ma nei fatti una buona fetta dei “poteri forti” contro i quali ha fatto campagna elettorale nel 2016 vorrebbe vedere al suo posto il candidato democratico Joe Biden insieme alla vice Kamala Harris (citofonare Silicon Valley).
Lo definiscono rozzo, sessista, arrogante. La stampa internazionale lo ha spesso descritto come impulsivo, sordo ai consigli dei suoi più stretti collaboratori e allergico alle regole del galateo costituzionale. Ma i numeri di quattro anni nello Studio Ovale raccontano anche un’altra realtà, opposta. Dalla politica estera all’economia, Trump has delivered, cioè ha portato a casa buona parte di quanto promesso agli elettori.
Dai negoziati (traballanti) con il satrapo della Corea del Nord Kim Jong-Un al riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele fino all’uccisione del capo dell’Isis Al-Baghdadi, tante delle caselle del programma elettorale sono state spuntate. Sul fronte fisco e occupazione, l’effetto devastante di sei mesi di pandemia non è riuscito ad annullare del tutto i risultati clamorosi raggiunti dall’amministrazione per l’economia americana, con numeri record che fanno sorridere anche quelle comunità a lungo dipinte come ostinatamente anti-trumpiane, ispanici in testa.
A quattro anni, e a due mesi dal secondo round, che bilancio fare del ciclone Trump? Nell’incertezza, è sempre una buona idea affidarsi ai classici.
Come la biografia di Trump scritta dal direttore del TG2 Gennaro Sangiuliano, “Trump, un presidente contro tutti”, per la prestigiosa collana degli Oscar Mondadori (330 pagine, 16 €), già bestseller che vanta numerose ristampe, oggi di nuovo in libreria con un’edizione aggiornata.
Il libro, parte della lunga serie di biografie dei grandi leader politici mondiali (come Hillary Clinton, Vladimir Putin e Xi Jinping) di cui Sangiuliano ha ormai fatto un inconfondibile marchio di fabbrica, ripercorre la vita del Tycoon, dall’infanzia nel Queens, a New York, fino all’ascesa (e agli alti e bassi) di un impero economico. E poi ancora la popolarità globale, con il programma “The Apprentice“, e il percorso che ha portato il miliardario a entrare nella stanza dei bottoni della prima superpotenza mondiale.
Sangiuliano non può che aggiornare la nuova vita di Trump alla pandemia che, ad oggi, ha già mietuto 190mila vittime negli Stati Uniti e continua a mettere in ginocchio il Paese. La lunga marcia della Trumpeconomy è stata in parte spezzata dall’emergenza che ha invertito i numeri da capogiro ottenuti dalla nuova amministrazione. Lo stesso vale per la popolarità del presidente, oggi fotografata dai sondaggi in calo verticale rispetto all’avversario Biden.
Complice una gestione (anche comunicativa) spesso ondivaga del virus, delle tensioni sociali ed etniche scoppiate nel Paese, e quella richiesta di “Law and Order” (Legge ed ordine) per cercare di porre fine al putiferio scoppiato fra polizia e afroamericani nelle più grandi metropoli americane.
Ma, avvisa Sangiuliano con l’occhio del giornalista esperto di cose estere, la politica è sempre questione di prospettiva. E forse i grandi quotidiani internazionali non sono l’unica lente, o la più adatta, per fare una tara oggettiva dell’amministrazione Trump a due mesi dal voto.
Se infatti le montagne russe sul virus sono innegabili, altrettanto lo è la risolutezza con cui il presidente ha affrontato uno dei temi cruciali della pandemia: la provenienza.
Definendo il Covid-19 “virus cinese” ha attirato su di sé l’ira dei media internazionali ma ha anche confermato, dice Sangiuliano, una tesi già corroborata da luminari di caratura mondiale niente affatto tacciabili di “trumpismo”, come il premio Nobel per la medicina del 2008 Luc Montaigner, per cui non ci sono dubbi: il virus proviene da un laboratorio a Wuhan, lì dove tutto è iniziato. Una tesi che nella nuova biografia è arricchita da un re-cap di retroscena e ricostruzioni di giornali internazionali (come il Washington Post) che hanno ripercorso all’inverso il sentiero seguito dal virus e per nulla escludono la possibilità di una sua origine artificiale.
Il pugno duro con la Cina sulla pandemia è solo l’ultima puntata di una battaglia identitaria del presidente uscente che suscita grande appeal nella sua base, così la definiscono i suoi detrattori, di “white trash”, spazzatura bianca, “redneck”, terroni, “hillbilly”, montanari. Fra due mesi si saprà se e come quest’appeal riuscirà a ribaltare i pronostici e i sondaggi (ancora una volta) contro Trump.