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Trump, la Corte e il voto. Gli scenari (anche da incubo) secondo Del Pero

È Amy Coney Barret il nome che Donald Trump ha scelto di inoltrare al Senato per sostituire Ruth Bader Ginsburg alla Corte Suprema. La morte dell’eroina dei diritti liberal verrà rimpiazzata da una giudice cattolica e conservatrice, che ha posizioni anti-abortiste (è stata impegnato in associazioni pro-life) e contrarie ai matrimoni gay; 48 anni, sette figli (due sono haitiani adottati), di New Orleans con laurea a Notre Dame (dove poi è tornata a insegnare l’originalismo imparato da Antonin Scalia, suo mentore per breve tempo).

La possibilità che Trump si trova davanti – rafforzare la suprema corte nominando il terzo giudici scelto durante il primo mandato, il sesto di orientamento conservatore – è un’occasione ghiotta per due ragioni. Primo, imprimere – comunque vadano le presidenziali di novembre – la propria impronta nella storia futura del paese. Secondo, avere una Corte conservatrice che potrebbe trovarsi a dover fare giurisprudenza sul risultato di Usa2020 – anche se Barret ha già dichiarato la sua (ovvia) imparzialità. Il presidente ha già preannunciato che quasi sicuramente “il processo elettorale finirà davanti alla Corte Suprema”, tutto mentre dice di “non poter garantire una pacifica transizione dei poteri”, e il New York Times scrive che il Pentagono è preoccupato di finire in mezzo allo scontro politico.

“La morte della giudice Ginsburg e la decisione di Trump e dei repubblicani di procedere rapidamente a una nomina ci dice tre cose”, spiega a Formiche.net Mario Del Pero, docente di Storia Internazionale e Storia della politica estera statunitense all’Institut d’études politiques di Parigi: “E la prima è che il Presidente e il suo partito non vogliono davvero fare prigionieri”. Ossia? “Quatto anni fa – continua – lasciarono la Corte senza un giudice per quasi un anno, perché (sostennero allora) non si poteva nominarlo in un anno elettorale e bisognava attendere il voto. Oggi non sono disposti a far passare neanche qualche settimana. Quando il perimetro delle regole è così flessibile e piegabile a chi riesce di volta in volta a definirlo, abbiamo uno strappo fortissimo e ai limiti davvero dell’eversione istituzionale”.

Secondo il docente di SciencesPo, comunque vada il voto, questi quattro anni di Trump lasceranno un potere giudiziario in mani conservatrici: qualcosa che va dalle corti distrettuali a quelle d’appello a quella Suprema. “L’azione di nomina di giudici da parte dell’amministrazione Trump è stata straordinariamente incisiva; e come abbiamo visto sia con Barack Obama sia con Trump le corti possono essere un contropotere oggi davvero importante all’azione di un Esecutivo”.

Questo secondo aspetto ci porta al terzo punto sulla decisione di Casa Bianca e Partito repubblicano di procedere alla nomina lampo prima del 3 novembre. “In virtù di questo lascito – spiega Del Pero – e del comportamento repubblicano rispetto alla sostituzione di Ginsburg, in caso di ampia vittoria democratica e di controllo sia del Congresso che della Presidenza è prevedibile una risposta radicale, che può estendersi anche alla modalità della composizione della Corte Suprema che non è, è utile ricordarlo, disciplinata da disposizioni costituzionali”. Si parla da qualche settimana che nel caso il contender Joe Biden dovesse riuscire a entrare allo Studio Ovale, e il Senato finisse in mano Dem, si potrebbe pensare a un ampliamento del numero dei giudici (attualmente nove); un modo con cui i Democratici potrebbero riequilibrare il gap.

Per quanto riguarda il voto, i sondaggi indicano un vantaggio anche forte – “ma non a prova di settimane di campagna (e di tre dibattiti televisivi)”, precisa il professore – per Biden. Un vantaggio nazionale di circa 6/7 punti; e un vantaggio in alcuni battleground-states, inclusi alcuni tradizionalmente repubblicani come l’Arizona. “È così, ma vediamo anche come la Florida sembra essere invece tornata contesa, anche grazie al recupero di consensi di Trump presso un elettorato ispanico che nel caso specifico del Sunshine State è più conservatore, ma che anche su scala nazionale (ci dicono i sondaggi) sembra sostenere Biden meno di quanto non fece con Clinton quattro anni fa”.

Secondo Del Pero, la partita per la Casa Bianca è destinata a giocarsi in un numero ristretto di Stati: “Posto che il Wisconsin sembra essere certo per Biden, che il tentativo di Trump di rendere competitivo il Minnesota non pare riuscito, che anche se il vantaggio di Trump in Texas e in Georgia è molto risicato è difficile immaginare lì possa perdere, le presidenziali si decideranno tra Arizona, Florida, North Carolina, Michigan, Pennsylvania, New Hampshire, e uno dei distretti elettorali del Maine (l’unico stato assieme al Nebraska dove non c’è il winner-takes-all)”.

“Rispetto al 2016 – continua – i democratici devono difendere solo il New Hampshire (4 elettori). Dato per certo il recupero del Wisconsin, ai democratici basterebbe la Florida, ma a me pare difficile, o una combinazione di almeno due altri Stati e paradossalmente sembrano esservi possibilità maggiori che eventualmente questa combinazione sia di due stati della Sunbelt, appunto Arizona e North Carolina, che della Rustbelt (anche se la combinazione dei sondaggi dà oggi Biden 7 punti avanti pure in Michigan)”.

E però quest’anno il voto sarà molto particolare. Ci sarà una massiccia percentuale di voti postali, forma che a quanto pare è preferita dagli elettori democratici anche (o soprattutto) per evitare i rischi connessi al recarsi ai seggi con la fase epidemica che negli Stati Uniti è ancora intensa. “Questo ci dice che è quasi certo che la notte delle elezioni non sapremo chi sia il vincitore e che lo scrutinio possa durare giorni. In caso di risultato incerto questo è uno scenario da incubo, a maggior ragione nel contesto polarizzato e teso odierno. E, ahimè, il Presidente ha rivelato una volta di più la sua inadeguatezza con un’azione di delegittimazione preventiva del voto a dir poco irresponsabile”.



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