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Medio Oriente e Balcani, ecco il Trump stabilizzatore. Parla Germano Dottori

Oggi alla Casa Bianca si tiene la cerimonia per la firma degli Accordi di Abramo che prevedono il riconoscimento di Israele da parte di Emirati Arabi Uniti e Bahrein. “Storico giorno per la pace in Medio Oriente”, ha twittato il presidente statunitense Donald Trump parlando di accordi “che nessuno pensava fossero possibili”. Altri “cinque o sei Paesi” arabi firmeranno presto accordi con Israele per la normalizzazione dei rapporti, ha annunciato.

Formiche.net ha intervistato Germano Dottori, docente di Studi Strategici alla Luiss e autore di La visione di Trump (Salerno editrice), per analizzare il ruolo del presidente statunitense Donald Trump.

Che cosa ci raccontano dell’approccio di Trump verso l’“arte dell’accordo” i recenti accordi nel Medio Oriente e nei Balcani? 

Ci dicono soprattutto una cosa: che il presidente americano in carica si propone come uno stabilizzatore. Ed è naturale che sia così: soltanto in un mondo più sicuro e tranquillo, infatti, prosperano gli affari. Inseriti in una certa prospettiva, gli accordi rientrano in uno schema di sostegno di lungo termine all’economia mondiale. L’economia è anche il solvente in cui si immagina di attutire i contrasti: tra Kosovo e Serbia è stata realizzata un’intesa che punta ad accrescere le interdipendenze. Non sempre funziona, ma è un’idea molto antica, che ai suoi tempi fece propria anche Henry Kissinger. Quanto all’aspetto “artistico” dell’operazione, almeno in relazione a quest’ultima intesa Trump ha dimostrato quanto possano essere utili anche in diplomazia le astuzie cui si ricorre nella contrattazione privata.

Spesso di sottolinea il fatto che Joe Biden abbia grande esperienza in politica estera e possa vantare anche rapporti personali con molti diversi leader. Lo si faceva con Hillary Clinton quattro anni fa. L’essere outsider è stato un fattore per l’“arte dell’accordo” di Trump?

Non credo. Conta piuttosto la prospettiva. Trump ha fatto leva su interessi reali e li ha piegati al suo progetto, che in Medio Oriente e nel Mediterraneo più in generale mira alla realizzazione di un equilibrio autosufficiente di potenza, di cui gli Stati Uniti potrebbero divenire i garanti “da remoto”, anche attraverso lo sviluppo dei sistemi d’arma discendenti dal Global Prompt Strike, che consentiranno al Pentagono di neutralizzare rapidamente qualsiasi tipo di minaccia agli interessi americani con armi di precisione, ovunque se ne manifesti la necessità. Probabilmente ne è uno quello cui Trump ha fatto cenno nelle sue conversazioni con Bob Woodward.

I recenti accordi firmati sotto la sua egida, rappresentano per Trump un modo per distrarre dai problemi interni in vista del voto?

No. Sono l’espressione di un orientamento strategico fondamentale della sua presidenza. Trump si è fatto eleggere con l’obiettivo dichiarato di ridurre l’impronta militare esterna degli Stati Uniti. Questo obiettivo può essere raggiunto soltanto promuovendo la stabilità. Specialmente nelle regioni più turbolente del pianeta. Di qui, la ricerca sistematica dell’interlocuzione, che viene spinta fino all’ingaggio dei nemici più irriducibili, come la Corea del Nord, e, soprattutto, l’intransigente rispetto della sovranità nazionale altrui, che implica la rinuncia alla destabilizzazione diretta ed indiretta. Quando vuole qualcosa, Trump punta alla trattativa. Esercita pressioni. Ma non incoraggia mai la sovversione. Va riconosciuto peraltro che non tutti, anche tra i pesi massimi della sua amministrazione, condividono questo approccio.

Lucio Martino sulle pagine di Formiche.net ha evidenziato due filoni della politica estera di Trump, che ha ribaltato lo storico approccio degli Stati Uniti (in particolare quelli bushiano e obamiano): il commercio internazionale e le guerre. Qual è il suo bilancio a sette settimane dalle elezioni per quanto riguarda il primo filone?

Credo che la transizione a forme “gestite” del commercio internazionale sia funzionale soprattutto a due obiettivi geopolitici strettamente correlati. La crescita economica è un elemento fondamentale della potenza politica degli Stati. Contenere lo sviluppo cinese serve quindi a limitare a lungo termine le ambizioni globali dei governanti di Pechino, mentre riportare le manifatture negli Stati Uniti, seconda finalità, aiuta oggettivamente l’America a mantenere le basi su cui poggia il suo primato. L’economia è funzionale alla politica, non il contrario. Il bilancio è per il momento sospeso anche a causa degli effetti del Covid-19. È comunque interessante che persino Joe Biden abbia giudicato positivamente gli accordi che hanno sostituito il Nafta.

E del secondo filone evidenziato da Martino?

Molti sforzi intrapresi nel 2017, quando Trump si rivolse a una folta platea di capi di stato e di governo arabi riuniti a Riad, stanno finalmente dando i loro frutti. Israele, gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrein, che è un protettorato saudita, stanno procedendo al riconoscimento formale d’Israele. L’Oman potrebbe seguire. Sono fatti. C’è chi pensa che si tratti di accordi essenzialmente anti-iraniani. E forse oggi lo sono. Ma Trump ha chiarito che spetta solo a Teheran di decidere il suo futuro. Le porte non sono chiuse, potrebbe un giorno anche associarsi al sistema che sta nascendo. Quindi, per ora si cristallizza un equilibrio locale di potenza, che porta Israele nel Golfo. Un domani, questo assetto potrebbe evolvere in un sistema di sicurezza collettiva e, persino, in un mercato integrato. Decisioni importanti spettano anche alla dirigenza turca, che dovrebbe moderare le proprie ambizioni.

Con questi accordi firmati, quali potrebbero essere le priorità in politica estera di una seconda amministrazione Trump?

La priorità fondamentale era fin dall’inizio la realizzazione di un accordo di sistema con la Federazione Russa. Trump non ha potuto sviluppare questo indirizzo della sua politica perché bloccato dalle inchieste che hanno colpito prima il generale Michael Flynn e poi lo stesso presidente, senza approdare a nulla. La stessa “massima pressione” applicata all’Iran servirebbe anche a creare un presupposto della possibile trattativa con Mosca. Trump vorrebbe infatti non solo costringere Teheran a rinunciare per sempre alle ambizioni nucleari, ma anche ai missili che possono raggiungere l’Europa, che sono stati la giustificazione formale dello schieramento delle difese antimissilistiche americane sul nostro continente. I russi le considerano come rivolte contro di loro e le ritengono conseguentemente una minaccia alla stabilità strategica. Senza missili iraniani – questo è il ragionamento — si potrebbero smantellare le difese predisposte per abbatterli. La Russia riceverebbe un segnale tangibile della serietà delle intenzioni americane e potrebbe trattare con Trump. Può sembrare strano, visto che pochi occidentali si fidano dei russi: ma neanche i russi si fidano di noi. Ed eventuali cedimenti immotivati potrebbero risultare fatali a Putin.

A muovere Trump è il pragmatismo piuttosto che l’ideologia? Questo aspetto potrebbe suggerire un Trump più incline all’accordo con Russia e Cina in un’eventuale secondo amministrazione?

L’accordo con la Russia è un obiettivo strategico della prima ora. Trump non teme Mosca, perché conosce i limiti economici della potenza russa. Intende invece “reclutarla” in uno schema di contenimento dell’espansione cinese verso ovest, riconoscendole lo status cui anela ed una serie di garanzie. Ai suoi occhi, va prevenuta la saldatura tra cinesi e tedeschi e la Russia è un cuneo perfetto. Con la Cina è possibile invece soltanto una tregua: Pechino dovrebbe rinunciare alla propria weltpolitik ed accettare una decelerazione del proprio ritmo di sviluppo, che sovverte gli equilibri mondiali ai danni dell’America. Difficile che ciò possa accadere senza una prova di forza, non necessariamente militare. Non escludo peraltro che Trump punti a un sistema internazionale in cui alle maggiori potenze è riconosciuta informalmente una propria sfera d’influenza, con gli Stati Uniti nella posizione di garante esterno di ultima istanza, in posizione dominante. In fondo, è lo scenario auspicato da Kissinger nel suo World Order.

Mettiamo caso che invece a novembre vincesse Biden. Come gestire l’eredità trumpiana in politica estera?

Biden dovrebbe fare i conti con una serie di fatti compiuti, proprio come è successo a Trump dopo Barack Obama, e impiegherebbe del tempo a disfarli. Ma non vi è dubbio che cambierebbero molte cose. Significativamente, Biden è tornato a utilizzare l’aggettivo “smart”, che fu una cifra fondamentale dell’approccio obamiano agli affari mondiali. Smart power significa demandare ad altri il perseguimento degli obiettivi della politica estera americana, laddove altri sono tutti coloro che si muovono in sintonia con gli interessi degli Stati Uniti, come le opposizioni interne ai governi che abbiano visioni diverse rispetto a quelle prevalenti in Occidente. L’azione internazionale americana tornerebbe a incorporare l’obiettivo di promuovere la democrazia nel mondo, senza curarsi particolarmente delle conseguenze sulla stabilità complessiva del sistema globale. Il rispetto intransigente delle sovranità nazionali propugnato da Trump verrebbe archiviato. Il tutto nel convincimento che la democratizzazione dell’universo sia realisticamente possibile senza spargimenti di sangue e che questa garantisca al meglio la sicurezza mondiale. Sono questi i presupposti che hanno determinato la guerra all’Iraq, il sostegno alle primavere arabe e la guerra di Libia, le cui conseguenze stiamo ancora affrontando.


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