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Trump, guerriero solitario (e presidente bis?). La versione di Glauco Maggi

Più che un combattente, il presidente Donald Trump è “un guerriero”. Perché le battaglie finiscono, le guerre non è detto. E il Tycoon è da quattro anni in una guerra continua. Contro “l’establishment”, i “Fake-news media”, i politici di professione che vorrebbero un ritorno al normale, cioè al pre-Trump, cioè a Joe Biden, l’ex vice di Barack Obama che svetta nei sondaggi a due mesi dal voto. Una guerra combattuta da solo, spiega Glauco Maggi, a lungo corrispondente negli States e storica firma di Libero, nel suo ultimo libro, “Il guerriero solitario” (Mind Edizioni).

Ha il pregio dell’“instant book”, perché gli ultimi capitoli hanno poche settimane di vita, e al tempo stesso affonda le radici in una ricerca di mesi per carpire il vero dna di questi quattro anni di amministrazione. Dai numeri roboanti della Trumpeconomics alla devastazione del virus fino agli scontri fra polizia e (non solo) afroamericani, Maggi non fa sconti al magnate in corsa per la rielezione ma neanche alla tifoseria del politically correct che (immemore del 2016) già lo dà per vinto, arreso, spacciato. Quel “guerriero”, dice invece l’autore a Formiche.net, non ha ancora intenzione di deporre elmo e scudo.

Maggi, perché Trump è un guerriero?

Lo è stato da quando, ormai cinque anni fa, è sceso dalla famosa scaletta della Trump Tower a New York per annunciare la sua candidatura. Un guerriero solo, perché da solo ha vinto le primarie repubblicane prima, e le presidenziali poi.

È ancora solo?

Solitario, perché agisce in autonomia. Solo no. In quattro anni ha trasformato il Partito repubblicano a sua immagine e somiglianza. E se il 95% dei Repubblicani oggi si schiera con lui è perché la grande maggioranza del partito ha capito che il bilancio della sua amministrazione è tutt’altro che negativo. In politica estera i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Isis distrutto. Gerusalemme riconosciuta capitale di Israele. Il piano Peace to Prosperity (dalla pace alla prosperità, ndr) per israeliani e palestinesi non è un sogno vano, ma un punto di non ritorno per i Paesi arabi. Alla Casa Bianca erano presenti gli ambasciatori di Emirati arabi uniti, Bahrein, Oman. C’è un ponte per una trattativa.

Sappiamo però che la politica estera non decide le elezioni americane. E sul piano interno i guai sono tanti. Le tensioni sociali, gli scontri fra polizia e comunità afroamericana, ora questa scivolata sui militari. Come ne può uscire?

Il clamore di questi mesi ha messo un po’ in sordina i numeri. Nel libro spiego che, di tutte le vittime della polizia, circa un quarto sono afroamericane. Gli episodi di violenza ci sono, sia in divisa che non, ma vanno contestualizzati.

Sarà, ma Biden e i democratici sono certi di fare incetta di voti fra gli afroamericani.

Presto per dirlo, e per esultare. Non tutti fra i sondaggisti sono convinti che il 3 novembre Trump avrà una percentuale di consensi fra afroamericani ed ispanici più bassa del 2016. Certo, complessivamente quella sfida è vinta dai democratici.

Perché?

Circa l’8% della comunità afroamericana ha votato per Trump quattro anni fa, storicamente i dem hanno saputo cavalcare meglio le leggi sui diritti civili. Ciò non vuol dire che i repubblicani siano razzisti. Abrahm Lincoln, il primo presidente-accusatore della schiavitù, era repubblicano. Il Sud vede ancora fenomeni di razzismo che, ahimé, sono però bipartisan.

Veniamo all’avversario. Anche Joe Biden è un guerriero?

No, o almeno non nel senso trumpiano del termine. Biden è un candidato inesistente sotto il profilo della personalità, era già un passo indietro con Obama alla Casa Bianca. Non brilla né fisicamente né intellettualmente, ha scarse capacità di esposizione, raccoglie il consenso dell’establishment che ha fatto fuori Sanders per fare spazio a lui. In più, ha qualche scheletro nell’armadio.

Quali?

Penso agli affari del figlio Hunter in Ucraina e in Cina. Rispunteranno fuori. Infine, spaventa l’elettorato moderato. Perché è il primo candidato nominato dal partito che per prendere voti, invece che virare al centro, vira a sinistra.

Biden però ha cavalcato meglio l’ondata di indignazione per la violenza della polizia, ha visitato le vittime. Trump no, e ha rifiutato di condannare un diciassettenne accusato di omicidio, Kykle Rittenhouse.

Lascerei alle indagini giudiziarie la comprensione di quegli eventi. Ho visto più volte i filmati, è difficile negare che questo ragazzo non fosse minacciato da chi lo ha inseguito. Trump ha già dato prova di saper prendere le distanze dai violenti. A Charlottesville ha citato uno ad uno, condannandoli, i suprematisti bianchi. Biden non ha detto una parola sulle violenze degli Antifa.

Perché allora i sondaggi danno il Tycoon così in basso?

Anche qui, una tara è necessaria. Il supporter-medio di Trump ha un profilo psicologico completamente diverso da quello di Biden. I moderati, soprattutto, sono inclini a negare di votare Trump, di fronte ai microfoni. Ma quando il microfono è spento…

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