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Da Hong Kong allo Xinjiang, tutti i nodi dell’accordo Vaticano-Cina spiegati da Scarpari

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“Penso e spero di sì”. “Poi si vedrà”. “Rimane aperto il discorso della collaborazione”. Nella prudenza del cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato Vaticano, c’è tutta la delicatezza della partita in corso per rinnovare l’accordo fra Santa Sede e governo cinese sulle nomine dei vescovi in Cina, la vita quotidiana della Chiesa cattolica, la persecuzione della “Chiesa clandestina” da parte delle autorità centrali. Se a San Pietro usano le parole col contagocce non è per pavidità, ma perché da questa trattativa dipende la vita di quasi dieci milioni di cattolici, spiega a Formiche.net Maurizio Scarpari, sinologo, già direttore del Dipartimento di Studi sull’Asia orientale dell’Università Ca’ Foscari.

Professore, quali sono i nodi da sciogliere?

Finora ne sono stati sciolti ben pochi. L’accordo non ha portato a granché di sostanziale, nel 2019 sono state fatte solo due nomine ed erano precedenti. Resta un problema di fondo.

Cioè?

In Cina non esiste una situazione uniforme. Ci sono regioni e province dove le autorità hanno allentato la morsa, altre dove è successo il contrario. Non solo cristiani o musulmani, anche religioni autoctone come buddismo e taoismo vivono pesanti costrizioni. Specie nell’entroterra, non è difficile trovare statue abbattute, chiese sigillate dalla polizia, organizzazioni religiose costrette a riconoscere la leadership del Partito comunista cinese (Pcc).

Come è noto il rinnovo dell’accordo non è vissuto bene da una parte della Chiesa che, già due anni fa, scorgeva in quella firma una concessione al governo comunista.

Sebbene lo stesso Parolin abbia fatto riferimento a diverse criticità, credo che di questo accordo si debba fare un bilancio positivo. Si sapeva che la dicotomia fra Chiesa ufficiale e clandestina non si sarebbe risolta in pochi mesi, ma il fatto che Cina e Santa Sede si parlino è già un passo avanti. Papa Francesco sa che esiste un fervore di religiosità nel mondo cattolico cinese, le chiese ufficiali sono frequentate, e non vuole serrare le porte.

Il dialogo è comunque visto da tanti cattolici cinesi come un cedimento. Anche perché non si fa menzione del rispetto dei diritti umani.

Questo non deve sorprendere. Ci sono questioni di fondo su cui i cinesi non arretreranno di un passo. Le proteste a Hong Kong, che un tempo era la porta dell’Occidente, è un nervo scoperto. Ma anche la detenzione degli uiguri in Xinjiang, che in queste settimane sta conquistando i riflettori internazionali, tanto da essere entrata nel confronto strategico fra Cina e Ue. In quella regione non a caso passa uno snodo centrale della nuova Via della Seta. Le autorità non saranno indulgenti.

Non solo a Roma, in America la tessitura vaticana con il governo cinese suscita molte perplessità, tanto fra i cristiani quanto nell’amministrazione Trump.

Di quale America parliamo? Sulla Cina come su tante altre questioni, penso alla bioetica, esistono divergenze importanti fra cattolici ed altre confessioni, come gli evangelici che sostengono Trump. Le critiche al dialogo della Santa Sede sono in parte strumentali a un dibattito elettorale cui papa Francesco non può sentirsi obbligato. Senza contare che molti dei suoi oppositori colgono l’occasione per montare la polemica.

Adesso l’altra faccia della medaglia. La Cina che ci guadagna?

Poco, non c’è un interesse reale. Le religioni di qualunque tipo sono viste con grande diffidenza, che diventa doppia se sono di matrice occidentale. Per il Pcc si tratta di ordine pubblico. Esiste una porzione della popolazione cinese che è credente, e va gestita, entro limiti strettissimi. Perché qualsiasi controllo diretto della Chiesa romana sui vertici è visto alla stregua di un’ingerenza da parte di una potenza straniera.

Insomma, di veri e propri rapporti diplomatici neanche l’ombra.

No, non oggi. Bisogna distinguere i piani. Pensare che da qui a due anni il papa potrà nominare i vescovi in Cina è una mera illusione. Quanto ai rapporti diplomatici, non ci sono ancora le condizioni. E comunque la diplomazia non dà garanzie sul rispetto dei diritti umani o delle minoranze. In questo momento, il governo cinese ha tutto l’interesse a firmare memorandum, accordi, intese, per rilanciare la sua immagine internazionale. Capire se poi vengono davvero applicati in patria è tutta un’altra storia.

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