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Via dall’Afghanistan a Natale. Trump rilancia la promessa (se vince)

“Dovremmo portare a casa entro Natale il piccolo numero dei nostri uomini e donne coraggiosi che ancora servono in Afghanistan”: apparentemente fuori pericolo, sebbene non ancora guarito, dal Covid; privato della possibilità di stare tra la gente e costretto allo scontro dialettico virtuale col contender democratico Joe Biden (a cui ha già detto di non voler partecipare); il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, rinvigorisce in questo rush finale per Usa2020 un grande classico della sua azione politica.

Il ritiro delle truppe dall’Afghanistan sarebbe questione di pochi mesi, ma in mezzo c’è il vallo elettorale. “Entro Natale” significa dare una tempistica stretta che però sorpassa la data del 3 novembre. Ossia, il messaggio contiene un avviso: attenzione alla vostra decisione tra me o Biden, perché quanto annunciato da questa presidenza potrebbe rimangiarselo la nuova democratica. E sotto quest’ottica il tweet è tattico: fa leva su una volontà chiaramente espressa da molti americani (sia liberal che conservatori) di porre fine a quelle che Trump definisce le “endless war” e che molti cittadini soffrono come uno sforzo eccessivo, un coinvolgimento che non porta frutto. E infatti tutti i più recenti presidenti nelle loro campagne elettorali hanno promesso ritiri.

Tecnicamente il ritorno a casa è fissato per la metà del 2021, con una riduzione sensibile del personale a gennaio prossimo, sulla base di un accordo (che l’amministrazione Trump non ha lesinato nel definire “storico” anche in questo caso, come con altri). Si tratta dell’intesa raggiunta, attraverso la mediazione del Qatar, con i Talebani. Era il 29 febbraio, e con l’obiettivo di porre fine al conflitto nel Paese dell’Asia centrale e aprire la strada al dialogo intra-afgano, gli Stati Uniti si impegnavano a ritirare le truppe dall’Afghanistan – presenti da 19 anni, secondo un impegno che per la prima (e unica) volta nella storia aveva fatto scattare l’articolo 5 del Trattato Nato quando Washington invocò la difesa collettiva contro i Talebani protettori di al Qaeda, responsabile di aver attaccato gli Usa con la strage del 9/11.

Al di là della nota politica a stelle&strisce — punto di partenza inevitabile per affrontare le dichiarazioni di un presidente costretto a una complicata rincorsa in queste ultime settimane che lo separano dall’ambito secondo mandato — la situazione in Afghanistan è ferma. I talebani si sono impegnati a non condurre operazioni militari contro le forze della coalizione internazionale, ma hanno compiuto in questi mesi attentati e attacchi contro le autorità afgane. Hanno anche avviato i negoziati diretti con il governo di Kabul, però: e non è un aspetto secondario se si considera che l’esecutivo afgano (non privo di contraddizioni) era stato inizialmente tenuto fuori dall’accordo statunitense di febbraio. I colloqui intra-afgani sono iniziati a settembre, e non sono comunque sfociati in qualcosa di concreto per ridurre gli scontri tra le due parti.

Ma l’esigenza di uscire dal Paese, e da quel conflitto “eterno”, per Trump e per gli Stati Uniti è più forte delle circostanze reali. Tant’è che con l’ipotesi natalizia annunciata il presidente ha sostanzialmente smentito il suo Consigliere per la Sicurezza nazionale, che aveva recentemente anticipato la possibilità di rimodulare la presenza a 2500 uomini sui circa 5mila attuali (tra l’altro non proprio un “piccolo numero” come lo ha chiamato Trump, ma il più corposo contingente Usa in un teatro operativo estero, sebbene molto ridotto rispetto al passato). Da Doha, il portavoce del gruppo jihadista ribelle afgano ha definito la volontà di Trump come “uno step positivo”.


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