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Firma in Bahrein, embargo all’Iran. I due volti degli Accordi di Abramo

Il volo EYAl973 arriva dall’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv a Manama, capitale del Bahrein. A bordo una delegazione mista israelo-americana pronta a sancire l’inizio effettivo della normalizzazione diplomatica tra stato ebraico e il piccolo regno del Golfo. Le relazioni ripartono grazie alla mediazione americana, che ha fatto in modo di includere il Bahrein negli Accordi di Abramo, il framework pensato da Washington per riaprire i rapporti diplomatici tra Israele e alcuni paesi della regione mediorientale – i primi sono stati gli Emirati Arabi Uniti.

Ad accompagnare gli israeliani a Manama, l’amministrazione Trump ha inviato il segretario al tesoro, Steven Mnuchin: sherpa è il negoziatore capo della Casa Bianca, Avi Berkowitz, ponte tra gli Usa e il gruppo israeliano, la cui delegazione è guidata dal consigliere per la sicurezza nazionale Meir Ben Shabbat e dal direttore generale del ministero degli Esteri Alon Ushpitz. “Questo momento storico – ha dichiarato Mnuchin – non sarebbe stato possibile senza la leadership del presidente Trump e della sua amministrazione”.

Il segretario ha il compito di sottolineare il ruolo del presidente Donald Trump in quanto sta succedendo, con il naturale intento di aumentare lo spessore politico internazionale del leader che tra tre settimane si troverà al super-test del rinnovo del mandato. L’amministrazione statunitense – come da prassi – ha cercato di sfruttare in più occasione situazioni e contesti di politica internazionale anche in chiave elettorale in vista di Usa2020.

Nella realtà, più che la leadership del presidente ha avuto valore la strategia in questo prima fase degli Accordi di Abramo (si scrive “prima fase” perché la normalizzazione con i due paesi potrebbe allargarsi nelle prossime settimane ad altri attori). Gli Stati Uniti puntano a creare un blocco di alleanze che possa gestire l’interesse americano nella regione e che sia ben posizionato su un allineamento: contrastare l’Iran, che gli Usa vedono come potenza egemonizzante di forza crescente (nonostante la crisi economica e sociale all’interno del paese) in Medio Oriente.

Sebbene possa essere limitante considerare gli accordi solo come una sorta di sistema di contenimento contro Teheran (le potenzialità di sviluppo dalla cooperazione che seguirà la normalizzazione sono in effetti molto ampie), l’Iran è il convitato di pietra alla cerimonia di oggi a Manama. Mentre infatti si consolida un altro pezzo della cortina anti-iraniana, oggi scade l’embargo sulle armi che le Nazioni Unite avevano imposto alla Repubblica islamica e che con l’intesa sul nucleare Jcpoa del 2015 sarebbe venuto meno in automatico.

La fine dell’embargo significa che l’Iran sarà legalmente in grado di acquistare e vendere armi convenzionali, inclusi missili, elicotteri e carri armati. Il ministero degli Esteri iraniano dice che ora Teheran potrà “procurarsi tutte le armi e le attrezzature necessarie da qualsiasi fonte senza restrizioni legali, e unicamente in base alle sue esigenze difensive”. Dichiarazioni che servono anche da gioco-diplomatico e contrasto proprio contro Washington, che aveva cercato di costruire un consenso all’interno dell’Onu per evitare l’eliminazione dell’embargo in automatico – d’altronde, come noto, gli Stati Uniti si sono unilateralmente dal Jcpoa perché ritenevano l’Iran una minaccia al di là del rispetto stretto dei termini dell’intesa.

(Foto: Twitter, @BahrainEmbDC)

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