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Brexit, non tutto è come sembra. Il punto di Angiolillo

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L’approvazione da parte della House of Commons dell’Internal market bill proposto dal premier britannico Johnson ha dato fuoco alle polveri nel campo minato sul quale si dipanano le trattative su Brexit.

Si tratta di una legge che permetterebbe al Regno Unito di rivedere unilateralmente le regole contenute nel Withdrawal Agreement relative al confine Irlandese, e che ha generato la censura dei due ex inquilini di Downing Street, David Cameron e Theresa May, per quella che potrebbe rappresentare una violazione del diritto internazionale. La reazione della Ue non si è fatta attendere, mentre si è ancora in attesa del suo passaggio alla House of Lords, con l’invio a Londra di una lettera di messa in mora per aver violato l’obbligo, previsto dall’art. 5 dello stesso Withdrawal Agreement, di agire in buona fede durante il periodo di transizione che scadrà il 31 dicembre di quest’anno. Si tratta evidentemente dell’inizio di un procedimento di infrazione nei confronti del Regno Unito.
Eppure, quella che potrebbe sembrare la chiusura del dialogo tra le due sponde della Manica e la premessa di una uscita senza un accordo per il post-Brexit in realtà non lo è.

I negoziati proseguono, e quanto accaduto in queste ultime ore rappresenta, almeno per il momento, una ulteriore attestazione delle rispettive posizioni al tavolo della trattativa.

Boris Johnson, d’altronde, lo ha detto chiaramente. Per il Regno Unito l’Internal Market Bill rappresenta, oltre che una assicurazione per un eventuale scenario no-deal, anche un modo per togliere alla Ue, nel corso delle trattative, lo strumento di pressione rappresentato dal protocollo sul confine irlandese mai del tutto accettato da larga parte dell’opinione pubblica britannica.

Del resto, in piena emergenza Covid-19, sia Londra che Bruxelles sanno che un accordo equilibrato sarebbe oggi conveniente, o quantomeno ridurrebbe i danni, per entrambe le parti, ma ancora non si trova un’intesa sul tema di fondo rappresentato dall’equilibrio tra indipendenza e integrazione nel post Brexit.

Come abbiamo già detto anche in altre analisi negli scorsi mesi, è questo il tema che più di ogni altro ha caratterizzato la stessa Brexit negli intendimenti di quegli ambienti britannici che hanno sostenuto dal principio l’uscita del Regno Unito dalla Ue e di cui l’attuale premier è autorevole rappresentante.

E la posizione di Johnson è chiara, Londra persegue un accordo di libero scambio sulla falsariga del Ceta, l’accordo che l’Ue ha stipulato con il Canada, ma “senza allineamento politico”. Il premier britannico esclude quindi ogni modello di partnership che sia fondata su una stretta integrazione normativa con l’Ue perché vuole garantire al Regno Unito la più ampia flessibilità di decisione sulle proprie regole interne e al contempo la libertà di negoziare, senza i vincoli normativi comunitari, altri accordi di libero scambio con Paesi come Usa, Australia, Giappone e Nuova Zelanda, con cui punta a rafforzare l’integrazione economica.

Sin dal referendum del 2016 d’altronde uno degli obiettivi dei Brexiteers è quello di fare di Londra una sorta di Singapore dell’Atlantico in grado di attrarre capitali da tutto il globo.

L’Ue, d’altro canto, pone come condizione per l’eliminazione o la riduzione di tariffe e quote il raggiungimento di un accordo anche su regole comuni in materie come la protezione dell’ambiente, gli aiuti di Stato e i diritti dei lavoratori. Bruxelles è infatti disponibile ad un accordo ad ampio spettro, che copra un ambito il più largo possibile di settori, ma a patto che siano garantite condizioni di parità, in modo che Londra non acquisisca, una volta non più vincolata alle regole Ue, un vantaggio competitivo nell’attrarre investimenti e partners commerciali da terze economie.

Le prossime settimane ci diranno se dovremo prepararci a rapporti commerciali fondati sulle regole del Wto, e se si passerà dalla trattativa per un Fta complessivo a quelle per accordi su singoli settori come ad esempio quello fondamentale dei servizi finanziari.

Intanto il tempo scorre, il 31 dicembre si avvicina, e nonostante gli accadimenti più o meno eclatanti il nodo di fondo irrisolto sul tavolo delle trattative è sempre lo stesso sin dall’inizio dei negoziati.

 

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