La pandemia prevale su tutto: si rischia di non poter operare chi avrebbe bisogno di una sala operatoria, figuriamoci se possiamo pensare al terrorismo islamico. Poi in Francia accade che un diciottenne di origine cecena nato a Mosca uccida un professore di Storia decapitandolo perché aveva mostrato in classe le vignette su Maometto pubblicate dal settimanale satirico Charlie Hebdo. Il terrorista, ucciso dalla polizia, ha seguito il solito tragico copione: ha urlato Allahu Akhbar e postato su Twitter le immagini dell’attentato con accuse agli “infedeli”. Il professore, che insegnava Storia e Geografia alla scuola media Bois d’Aulne di Conflans-Sainte-Honorine, nei pressi di Parigi, il 5 ottobre aveva mostrato quelle vignette durante una lezione sulla libertà di espressione. Alcuni genitori si erano lamentati e in particolare il padre di una ragazza musulmana aveva parlato di “vergogna” per l’immagine del “nostro profeta” nudo. Nelle ore successive la polizia ha fermato nove persone tra le quali quattro membri della famiglia del ceceno e i genitori di uno degli studenti di quella scuola.
Si sta verificando quello che molti temevano dopo che la rivista all’inizio di settembre ripubblicò le stesse vignette su Maometto che avevano causato l’attentato del 7 gennaio 2015 con un bilancio di 12 morti. L’occasione fu l’inizio del processo a carico dei terroristi con la parola d’ordine “non rinunceremo mai”. La prima reazione ci fu il 25 settembre quando un diciottenne pachistano ferì quattro persone con un coltello nei pressi della vecchia redazione della rivista (dov’era nel 2015) e, intervistato dalla Repubblica, Patrick Pelloux, firma di Charlie Hebdo, rivendicò la ripubblicazione in nome della laicità: “Si chiama libertà di espressione. I fondamentalisti islamici non devono cancellare i nostri principi”.
Siamo arrivati al punto critico. La libertà di espressione è sacra in una democrazia, ma la satira deve porsi dei limiti? Porsi, non subire. Limiti, non autocensura. Il dibattito si infervorò nel 2015 e la gran parte dei vignettisti, anche italiani, difese le scelte dei colleghi francesi sottovalutando le differenze culturali tra i credenti delle diverse religioni. In Italia sono state pubblicate molte volte vignette con Gesù protagonista in atteggiamenti o dialoghi che molti hanno giudicato blasfemi, ma (di solito) i cattolici non uccidono gli autori. Gli integralisti islamici, invece, interpretano le vignette su Maometto come la peggiore delle blasfemie e se la satira diventa un problema di sicurezza nazionale qualche domanda bisogna porsela.
Il rispetto nei confronti di qualunque professione religiosa dovrebbe tenere conto della sensibilità dei praticanti anche quando non arrivano a commettere attentati. Se la prima protesta per quanto fatto da quel professore è arrivata da una famiglia musulmana, e non sappiamo se abbia a che fare o meno con l’attentato, significa che quella che per noi è satira per altri è una provocazione. Peraltro, sull’interpretazione della satira da parte di Charlie Hebdo basterebbe ricordare l’ignobile vignetta dopo il terremoto di Amatrice quando le vittime erano definite come piatti tipici della cucina italiana. Una decina di giorni fa è cominciato a Parigi il processo per diffamazione intentato dall’amministrazione del Comune laziale. Chissà se i vignettisti francesi hanno mai avuto il piacere di subire un terremoto di quell’entità.
Dopo l’attacco del 2015 i Servizi di mezzo mondo, compresi quelli italiani, si raccomandavano di non ripubblicare quelle vignette, magari con la scusa del diritto di cronaca per spiegare l’accaduto. Non sempre sono stati ascoltati. La diffusione del jihadismo in Francia è ben nota, neanche il Covid fa passare in secondo piano l’odio per l’Occidente e il rischio è che gli esaltati che compiono gli attentati in Francia possano risvegliare i “dormienti” in altre nazioni. Meglio una vignetta di meno, se possibile.