“Se non si sono messi d’accordo con gli Stati Uniti e la Nato, sono matti”. Carlo Pelanda balza sulla sedia. A Taranto, una maxi-delegazione del governo rossogiallo, il premier Giuseppe Conte, sette ministri e un sottosegretario, Mario Turco, assiste alla firma della cessione di un pezzo del porto a Pechino. Si tratta dell’ex yard Bellelli, 220mila metri quadri, in concessione demaniale al gruppo Ferretti, già eccellenza romagnola nella produzione di yacht, da otto anni partecipato all’85% dal gruppo cinese Weichai. “Spero che il governo abbia dato le opportune garanzie di sicurezza”, commenta l’economista e analista con Formiche.net.
Da mesi si inseguono alert della diplomazia americana e dell’intelligence italiana sull’operazione. Perché Taranto, prima ancora di essere uno scalo commerciale, è un importante snodo strategico dell’Adriatico. Ospita le Standing Naval Forces (Snv) della Nato e le navi della missione Ue Irini. A Palazzo San Macuto, sede del Copasir, c’è un dossier aperto sull’operazione.
A Taranto, Conte ha calato il sipario sulle polemiche, un po’ seccato: “Se c’è una partecipazione straniera e abbiamo deciso da oggi che dobbiamo sovietizzare l’Italia, non sono d’accordo”. Ma ha mancato il punto, dice Pelanda.
“Il problema non è tanto il rischio di spionaggio all’interno di un’area territoriale, questo si può arginare. Il problema è la passerella. È stato dato un risalto enorme all’iniziativa, questo lancia un messaggio politico. L’Italia continua a non trovare il giusto equilibrio fra interessi mercantilistici e alleanze. È dilettantismo”.
Si ripete così, spiega Pelanda, l’errore commesso nel marzo del 2019, quando il governo Conte 1 con grandi fanfare ha siglato il memorandum d’intesa per far aderire l’Italia, primo e ultimo Paese del G7 a farlo, alla nuova Via della Seta cinese, alla presenza di Xi Jinping. Il rischio, dice, è quello dello “stigma” politico di fronte agli alleati. Peraltro a una settimana dalla visita romana del segretario di Stato Usa Mike Pompeo, che ha cordialmente ricordato a Conte la natura “predatoria” degli investimenti cinesi.
“Fossi stato al governo avrei strutturato meglio l’operazione. Anche io ci penserei due volte prima di far fallire un’azienda italiana, ma ergerei una rete di sicurezza e non darei tanta enfasi pubblica a un nuovo cantiere nel porto”.
L’assist ai cinesi è doppio, spiega Pelanda, anche perché la “Belt and Road Initiative” è rimasta per buona parte sulla carta. L’“assalto” ai porti italiani a lungo raccontato dalla stampa internazionale (non senza qualche esagerazione) si è ridotto a qualche memorandum e singoli, mirati investimenti nelle banchine. A Trieste, snodo principale della “Silk road” italiana, a banchettare sono stati infine i tedeschi del porto di Amburgo. Meno il colosso cinese Cccc, finito un mese fa sotto sanzioni del Dipartimento del Commercio americano, con tutte le conseguenze del caso.
“La Via della Seta cinese non esiste più al 90% – spiega l’analista – perché Pechino non ha più i soldi per finanziarla, né interesse di farlo se non in zone mirate per esportare manodopera o mettere le mani su centri strategici”. Fatta eccezione per il porto del Pireo, da un anno ufficialmente in mano ai cinesi di Cosco, i porti europei sul Mediterraneo hanno offerto alla Cina un magro banchetto.
Dice Pelanda: “L’attenzione si è spostata dal Mediterraneo all’Oceano Pacifico. E la strategia dei porti non è più solo sulla scrivania di Xi. Iniziano ad esserci delle crepe nel sistema di potere cinese”. Di qui una finestra di opportunità: “Smetterla di considerare lo Stato cinese come un monolite, riconoscere con un lavoro di intelligence gli investimenti cinesi ‘buoni’ da quelli ‘cattivi’. Ma forse è un lavoro troppo di fino per l’Italia. La Germania lo sta facendo da mesi”.