Da storico dell’aeronautica non posso non ricordare che spesso in passato i fisici più illustri fecero previsioni numeriche che la realtà si è poi incaricata di smentire. Potrebbe accadere lo stesso con Covid-19. Il problema non sono i calcoli, né i modelli, quanto le assunzioni alla base. L’opinione di Gregory Alegi, giornalista e storico
Come umanista, non sono in grado di verificare l’esattezza dei calcoli sulla diffusione della pandemia nei modelli proposti dal fisico Giorgio Parisi, presidente dell’Accademia dei Lincei. Come storico dell’aeronautica, posso però ricordare che spesso in passato i fisici più illustri fecero previsioni numeriche che la realtà si è poi incaricata di smentire.
Seguendo i principii di Isaac Newton, per far decollare una macchina di poco più di 100 chili sarebbe servita un’ala di 1.000 metri quadrati (a 36 chilometri orari), che scendevano a 100 metri quadri a 360 km/h. Su queste basi, William Thomson (poi Lord Kelvin), affermò che “il volo delle macchine più pesanti dell’aria è impossibile”. Entrambi questi giganti della fisica avevano torto. Il problema non erano i calcoli, ma gli assunti: Newton aveva immaginato un’ala piatta, sottostimando drammaticamente il coefficiente di portanza e la sua relazione con il variare dell’angolo di attacco. “Per tali motivi, i calcoli basati sulla legge newtoniana del quadrato del seno portarono a previsioni molto pessimistiche sulle caratteristiche aerodinamiche delle macchine volanti – tanto pessimistiche che nel diciannovesimo secolo i predetti risultati furono usati a sostegno dell’impraticabilità del volo con il più pesante dell’aria”. (Anderson, A History of Aerodynamics, p. 40).
Sappiamo come andò a finire. Il 17 dicembre 1903 una macchina di 274 chili (più il pilota) con un’ala di 47,4 metri quadri fece quattro voli, l’ultimo dei quali coprì 259,7 metri in 59 secondi, smentendo a un tempo i calcoli di Newton del 1687 e le certezze di Kelvin del 1895.
Con buona pace dei 200 studenti che hanno rivendicato il diritto dei fisici di estrapolare numeri, il punto della discussione non è se i calcoli siano ben fatti o su chi sia più bravo a farli. Sicuramente il fisico medio è più bravo dello storico medio. La matematica, in senso lato, gioca un ruolo importante in ogni campo: si pensi all’economia, dove l’impostazione classica di Adam Smith ha lasciato da tempo il passo ai metodi quantitativi. La meteorologia è basata sull’analisi statistica di enormi masse di dati, tanto da costituire da sempre uno dei principali driver dello sviluppo dei supercalcolatori. Nessuno mette ragionevolmente in dubbio che la corretta esecuzione di un modello matematico generi risultati numerici molto precisi.
Ma il punto è proprio questo: la bontà del modello matematico, che a sua volta discende dalla corretta comprensione del fenomeno che si intende analizzare. Identificare le variabili e le loro interazioni, riprodurne il comportamento reale noto (per via sperimentale o sul campo), misurare le deviazioni tra i comportamenti previsti e quelli misurati: queste sono le cose che distinguono i modelli affidabili dalle pure proiezioni matematiche. Molto dipende dalla capacità del modello di assorbire gli choc che possono presentarsi nel mondo e nella vita reali. Quasi 70 anni fa, gli psicologi statunitensi Luft e Ingham introdussero la distinzione tra incognite-conosciute e incognite-incognite, poi ripresa e resa celebre dal segretario alla Difesa americano Donald Rumsfeld nel 2002.
Secondo l’abusata battuta di Igor Sikorsky, l’inventore dell’elicottero moderno, “perr le leggi dell’aerodinamica il calabrone non può volare; ma lui non lo sa e vola lo stesso”. L’interpretazione autentica di questo apparente paradosso la diede Theodor von Karman. Questo grande aerodinamico (e dunque fisico) e ingegnere, socio dei Lincei dal 1947, ampliò la conoscenza aerodinamica per spiegare, con i suoi celebri vortici, perché il precedente modello non potesse spiegare un fenomeno naturale facilmente osservabile da tutti. Grazie a von Karman, oggi il volo del calabrone è “dentro” le leggi dell’aerodinamica.
L’ultima considerazione riguarda la differenza tra teoria e pratica. Per restare in campo aerodinamico (e dunque fisico), si può citare il “prandtplano”, l’aereo con ala chiusa descritto nel 1924 da Ludwig Prandtl, padre della teoria dello strato-limite (già anticipata da Tullio Levi-Civita) e maestro di von Karman. Nonostante i vantaggi aerodinamici dimostrati per via matematica, alla prova pratica i risultati si sono sempre dimostrati inferiori alle complicazioni strutturali e produttive. Non meraviglia che nessun prototipo ad ala chiusa sia mai andato in produzione.
In buona sostanza, una discussione non sensazionalistica della probabile diffusione del Covid dovrebbe partire da alcuni punti fermi. Primo, il risultato matematico indica la corretta esecuzione dei calcoli, ma non la bontà del modello sottostante. Secondo, l’affidabilità del modello è tanto maggiore quanto più si conosce il fenomeno che si intende descrivere, che è appunto uno dei problemi che al momento sconta la lotta al coronavirus. Tra le domande più interessanti ci sono il tempo di esposizione e, soprattutto, il numero medio di contatti del contagiato nell’intervallo di tempo significativo prima dell’accertamento della positività (“Quante persone per quanto tempo, in altre parole”). È più probabile che le risposte concrete vengano dall’ambito medico (e segnatamente virologico) che non da quello matematico, a prescindere dal fatto che lo sviluppo del modello e i calcoli li facciano fisici, economisti, ingegneri, informatici o meteorologi. Terzo, anche i migliori modelli restano vulnerabili alle incognite-incognite.
È chiaro che queste cose Parisi le sa benissimo, non solo perché la seconda parte della sua lettera apre gettando acqua sul fuoco (“Certo, non sta scritto da nessuna parte che la crescita epidemica debba andare avanti con un raddoppio costante nel prossimo futuro”) ma soprattutto perché la terza parte della lettera (pari a oltre il 55% della sua lunghezza) denuncia la mancanza di dati. Dati che secondo lo stesso Parisi non è chiaro se esistano, se siano raccolti in modo sistematico e standardizzato, se siano resi disponibili alla comunità scientifica e così via.
Il punto centrale non è dunque l’allarme isterico amplificato dai media, né se i fisici sappiano o meno la matematica, ma piuttosto – come Parisi scrive forse troppo lucidamente per poter essere compreso dagli studenti di fisica e dai suoi fan sui social – che “la comunità scientifica non possa chiarire i modi di trasmissione del virus in Italia a causa della mancanza di dati dettagliati sui contagi diffusi accessibili a tutti (quelli che in inglese si chiamano open data)”. “L’impressione – conclude il fisico – è che al momento attuale si guidi molto alla cieca, cercando di usare il buon senso per non andare a sbattere”.
A parziale consolazione, dove non arriva la matematica giunge in soccorso la storia. “Qui si tratta di una epidemia vera e propria, e in ogni forma di contagio l’agglomeramento di gente fu sempre un gravissimo pericolo”, si leggeva il 3 novembre 1918 a pagina 6 de La domenica della Gazzetta, supplemento illustrato della Gazzetta del Veneto. “Non si dovrebbe quindi visitare malati o convalescenti d’influenza anche di forma leggerissima; non frequentare luoghi dove il pubblico si affolla (osterie, caffé, chiese, sale di conferenze) evitando in una parola tutte le riunioni non necessarie. Così facendo si mette in pratica l’unico mezzo veramente efficace contro l’influenza, procurando l’isolamento di coloro che portano seco e propagandano il germe della malattia, e che sono in generale malati di forme leggere, convalescenti e persone che furono a contatto di malati senza ammalarsi esse stesse. Secondo il professore tutti i teatri e i cinematografi dovrebbero venir chiusi”. Sono trascorsi 102 anni, siamo passati dai biplani in legno e tela ai voli privati nello spazio, ma a breve termine la risposta alle epidemie resta ancora quella che nel 1918 si dava all’influenza spagnola.