Fino a 7 mesi fa molti di noi non avevano nemmeno mai sentito parlare dei Dpcm. Ora sono praticamente la principale guida delle nostre vite. Perché da fine febbraio è nei Decreti del presidente del Consiglio dei Ministri (in sigla, Dpcm) che troviamo ciò che si può fare, dove possiamo andare, quando chiudono i negozi e che tipo di autocertificazione o di autodichiarazione ci serve per comprovare le ragioni per cui usciamo di casa.
Non è tornato lo Stato di polizia ottocentesco, ma è l’effetto della Pandemia. Che ci ha fatto tornare ad essere un po’ più sudditi e meno cittadini.
La pandemia ha sovvertito anche il sistema costituzionale delle regole. Infatti, la Costituzione prevede una serie di riserve di legge per limitare i diritti delle persone. Cioè richiede che intervenga il Parlamento con un atto legislativo per incidere sulle libertà personali. È una importante garanzia di democraticità, perché l’intervento del Parlamento assicura il dibattito pluralistico fra tutte le forze politiche e consente ai cittadini un controllo diretto sulle decisioni, in quanto le sedute parlamentari sono pubbliche (art. 64 Cost.). Invece, gli atti del governo sono adottati soltanto dalla maggioranza e senza alcuna forma di pubblicità diretta sulla loro formazione.
Ma dopo qualche protesta primaverile di noi giuristi (dai più presi per formalisti e conservatori), ci siamo tutti assuefatti ai Dpcm.
E da buoni quasi-sudditi ci affanniamo a cercare di capire qualcosa sulle nostre libertà residue sfogliando le decine di pagine dei decreti.
Eh sì. Perché non solo da febbraio siamo arrivati a 20 Dpcm. Ciascuno di molteplici di pagine. Oltre a una decina di Decreti-legge e svariate ordinanze di singoli ministeri, regioni e comuni.
Ma ciascuno di questi decreti è complesso e dettagliatissimo. Basti dire che il Dpcm del 13 ottobre è composto da oltre 84.000 parole. Mentre la nostra Costituzione è di soltanto 9.000 parole. Cioè il 90% in meno.
Questo accade perché ogni volta il governo cerca di essere minuzioso nella regolazione, per coprire tutti i casi. Ma così facendo ne escono fuori atti illeggibili. Poco comprensibili.
Basti pensare al Decreto del Ministro per le politiche giovanili e lo sport in merito all’individuazione delle discipline sportive di contatto del 14 ottobre 2020. Adottato n attuazione dell’articolo 1, comma 6, lettera g) del Decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 13 ottobre 2020. Che elenca 130 “sport di contatto” vietati, che vanno Aikido al Tiro alla Fune; dall’Hockey subacqueo, al calcetto amatoriale, al Sepaktakraw (cioè la pallavolo tailandese che si gioca con i piedi) .
E poi, per quanto le regole siano dettagliate, si trova sempre il facile aggiramento.
Così, leggiamo che molti circoli sportivi hanno attivato la procedura di riconoscimento delle loro partite di di calcetto in “dilettantistiche”. Così si consentono le classiche partite di fine pomeriggio “scapoli contro ammogliati”, perché il Dpcm vieta il calcetto amatoriale, ma consente quello dilettantistico.
E lo stesso sta accadendo per i bar. Il cui orario di chiusura è fissato alle 24. Ma molti bar, dopo aver chiuso alle 23:59, riaprono alle 0:15. Perché il Dpcm regola l’orario di chiusura, ma non quello di apertura!
E così via.
Tutto ciò accade perché i nostri legislatori sono afflitti dalla sindrome del Cartografo di Borges.
Come ci racconta Borges, a fronte del Re di Spagna insoddisfatto perché voleva una carta geografica davvero fedele del suo impero, i suoi zelanti cartografi si accorsero che l’unica soluzione veramente soddisfacente consisteva nella perfetta mimesi dei luoghi geografici e, quindi, finirono per preparare una (del tutto inutile) carta dell’Impero grande come l’intero Impero!