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Europa meno depressa, America meno maniacale. Le reazioni alla pandemia

Non sappiamo come andrà a finire, ma sappiamo che lo scacchiere internazionale assomiglia sempre di più a una lotta fra diverse soluzioni psichiche. Risposte al disagio che l’emergenza Covid-19 ha non solo messo in evidenza, ma rimesso in discussione.

C’erano una volta solo stili di reazione diversi per affrontare la crisi. Gli stati mentali che si contendevano il campo erano la maniacalità degli Stati Uniti – con il loro mito del tutto è possibile – e la depressione dell’Europa, apparentemente più realista, ma a rischio immobilismo (la burocrazia ne è uno degli esempi). È una semplificazione, come sappiamo sono sempre esistiti molti europei “maniacali” e altrettanti americani depressi. Ma può funzionare a figurarsi le forze in gioco.

Durante la pandemia alcuni problemi come la sfida climatica e il rinnovo tecnologico hanno avuto un’accelerazione: è come se la realtà – traumatica – avesse pigiato l’acceleratore.

Prendiamo un esempio singolare, il “lipstick index”. Questo indice misurava l’impoverimento delle donne sulla base della vendita dei rossetti. Più rossetti si vendevano, più era probabile – pensavano gli economisti fino a qualche mese fa – che le donne avessero perso potere d’acquisto e cercassero una soluzione “anti-depressiva” a buon mercato. Si è visto che questo indice non funziona più. Forse per via delle mascherine che coprono le labbra, ma forse anche perché prevale un bisogno più forte, quello della sopravvivenza.

E così anche l’immobilismo europeo, sintomo di uno stato depressivo di sfiducia nella possibilità di mettersi d’accordo ha smesso di essere un indice predittivo. A sorpresa sono arrivati una politica economica e una diplomazia comuni. Movimenti che solo pochi mesi fa sembrava impensabili. Dal Recovery fund, alla fermezza ritrovata rispetto alla crisi bielorussa, fino al confronto con la Cina e la sua aggressività commerciale.

La soluzione psichica che la maggior parte dell’America sembrava aver adottato dopo l’elezione del suo presidente era l’uso di Trump in funzione anti-depressiva. Le sceneggiature del presidente sono state ampiamente analizzate da frotte di politologi. Ma è stato Christopher Bollas, uno psicoanalista californiano, a metterne in luce i meccanismi profondi: la demolizione della complessità dei problemi (povertà, degrado urbano, disuguaglianza) attraverso una scissione tra buoni e cattivi, il diniego di una parte della realtà ritenuta “indigeribile”, l’attribuzione all’altro delle colpe (immigrato o élite prive di patriottismo), la fuga in uno stato euforico in cui, di nuovo, si può rinascere con onnipotenza degli inizi.

Adesso quella parte di America che ha rifiutato l’uso della mascherina, leggendolo come un attacco alle libertà americane, ha incontrato la profondità della ferita nel proprio tessuto sociale. Certo il Trump sopravvissuto continua a gridare il suo messaggio euforico, “non vi arrendete, abbiamo i migliori medici del mondo”, e moltissimi sono pronti a seguirlo. Ma, almeno per ora, non è detto che anche questa volta la maggioranza degli americani lo scelga al posto del Prozac.



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