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Il fisco? Inefficiente e iniquo. Mantovani (Cida) spiega perché

Itinerari Previdenziali nel suo puntuale rapporto sulle dichiarazioni dei redditi 2018, fornisce le cifre di una situazione fiscale complessiva del nostro Paese che non è solo una denuncia di un sistema squilibrato, ma soprattutto un appello ai decisori politici per evitarne il possibile collasso. Se, infatti, il 13% dei contribuenti italiani versa quasi il 60% dell’Irpef nazionale (circa 5 milioni di dichiaranti, quelli con redditi superiori a 35.000 euro), abbiamo la conferma incontestabile di un fisco squilibrato ed iniquo. Un meccanismo, inoltre, che ha sempre maggiori difficoltà a garantire le risorse per sostenere il Welfare State che conosciamo, a partire dalla sanità. In questo senso, le cifre dell’Osservatorio del prof. Alberto Brambilla, diventano allarmanti quando ci dicono che oltre il 49,29% degli italiani sembrerebbe non aver reddito, risultando quindi, a carico nella media nazionale.

È evidente che stiamo guardando la fotografia di una realtà deformata, costituita da una platea di cittadini- contribuenti fittizia, nei confronti della quale le armi per contrastare l’evasione risultano inefficaci e gli interventi per riequilibrare il prelievo inadeguati. Il risultato di questo paradosso sta nella voragine dell’evasione fiscale e nell’intollerabile pressione fiscale sui redditi “noti”, alimentata dalla sempre più evidente incapacità del sistema fiscale a reperire le risorse necessarie a sostenere la spesa sociale.

Ne deriva che l’intero nostro sistema di welfare rischia di diventare insostenibile. La crisi recessiva provocata dal Covid-19 potrebbe aggravare questo quadro complessivo, accelerandone il degrado, provocando un impoverimento generalizzato della popolazione e ampliando il “gap” fra chi le tasse le paga e chi no, a fronte di una crescente pressione da parte dell’opinione pubblica, per aumentare le spese sociali ed assistenziali.

Queste ultime, come dimostrano chiaramente i dati di Itinerari Previdenziali, vanno a finire solo sulle spalle di chi le tasse le ha sempre pagate, con un aggravio crescente in termini di riduzione del reddito disponibile, di potere d’acquisto, di depressione dei consumi e di minor dinamismo imprenditoriale. Stiamo assistendo a un graduale ma costante rallentamento nella crescita dei redditi appena superiori alla fascia bassa. Gli scarsi investimenti in tecnologie, organizzazione e competenze, oltre a una generalizzata avversione verso chi per merito e competenze guadagna di più della media, hanno portato a valori medi dei redditi di lavoro indegni di un paese sviluppato, che esprime leadership in molti settori.

Se questa è l’analisi, è evidente che il trend non può che registrare un peggioramento generale, sul fronte degli incassi dell’erario, della pressione fiscale complessiva e/o per categorie di contribuenti, della sostenibilità della spesa per il welfare, aggravata dalla pandemia.

Servirebbero interventi correttivi, tempestivi e praticabili, senza immaginare riforme rivoluzionarie con costi politici irrealistici o evocando il mantra della lotta all’evasione fiscale per recuperare gli oltre 100 miliardi di mancato gettito che restituirebbero la dignità ad un sistema fattosi ingiusto. Certo è che, ormai, gli scaglioni di reddito sui quali grava la maggior parte dell’Irpef sono ben lontani dall’individuare i ricchi sui quali la progressività dell’imposta svolgerebbe l’originaria funzione sociale e riequilibratrice. In realtà, le remunerazioni si sono appiattite verso il basso, le imprese non hanno aumentato le loro dimensioni, il lavoro qualificato non è cresciuto. Ed è da qui che bisogna ripartire con segnali concreti.

Come Cda preferiamo concentrarci su quello che conosciamo meglio: le imprese e il lavoro, ed è su questo terreno che vanno trovate le soluzioni, almeno una parte di queste, visto che la premessa resta sempre quella di far pagare le tasse a chi le evade o le elude. Voglio dire che il fisco non può essere solo un occhiuto guardiano delle entrate, ma deve anche essere un potente stimolo per l’economia reale: la manifattura, il terziario, il digitale in tutte le sue applicazioni e potenzialità. Una realtà produttiva fatta di imprese che devono crescere: in dimensione, in qualità del lavoro e della sua remunerazione, in capacità di attrarre capitali e di competenza nel saperli investire. Il fisco può aiutarle in questo sforzo, ad esempio premiando le aziende che fanno utili, quelle che si aprono in modo trasparente all’ingresso di capitali di rischio, quelle che assumono. Si è tentato più volte in un recente passato. Ora vanno selezionati gli strumenti migliori e applicati senza attendere oltre.

Per quanto riguarda il lavoro, anche qui occorre intervenire sul lato fiscale, per alleggerirne il costo soprattutto all’ingresso e dare il giusto riconoscimento a forme nuove di welfare, come quello contrattuale e aziendale, favorendone l’armonizzazione. O per sfruttare pienamente le potenzialità della previdenza complementare. Anche perché, la rarefazione e la frammentazione del lavoro giovanile, la discontinuità di molte carriere professionali, rendono incerto il futuro previdenziale di molti. Ancora, i costi crescenti della sanità pubblica e una scarsa attenzione alle istanze avanzate dalle categorie professionali dei medici, stanno aggravando la crisi di un Servizio Sanitario Nazionale messo a dura prova dalla pandemia. Il welfare solidaristico finanziato con risorse private andrebbe incoraggiato e inserito in un contesto organico e coerente, non è un privilegio riservato a pochi. È un’espressione concreta di sussidiarietà, è la via per rendere sostenibile il welfare negli anni a venire, affrontando l’avversa curva demografica. Sarebbe anche utile favorire la crescita dimensionale e organizzativa delle imprese di servizi alla persona, con azioni efficaci di contrasto dell’opacità e irregolarità, limitando la presenza sul mercato di operatori marginali, il cui mancato equilibrio economico genera comportamenti evasivi ed elusivi delle norme fiscali.

C’è un’ultima riflessione che viene suggerita dalle tabelle e dai dati dell’Osservatorio sui redditi. Quando si scava fra le categorie di contribuenti, i loro scaglioni fiscali, le loro aliquote, i loro versamenti, oltre a rendersi conto dei bassi livelli retributivi, si palesa anche l’incongruità della ‘vecchia’ distinzione fra lavoro dipendente e lavoro autonomo. Categorie di un altro secolo, che forse giustificavano un certo sospetto di favore fiscale nei confronti dei lavoratori autonomi, ma che ora fanno parte della storia del diritto del lavoro, non certo di una realtà fatta di tanti lavori, spesso poco qualificati e poco pagati, di negozi chiusi, di e-commerce, di sterili dibattiti sul lavoro domenicale. Ecco, mentre si lavora alla prossima legge di bilancio, vorremmo meno dibattiti e più proposte per far crescere le imprese, il lavoro qualificato e la sua remunerazione e consentire ai nostri giovani preparati di trovare occasioni professionali in Italia, con stipendi adeguati e un sistema di welfare che incoraggi la natalità e prepari alla pensione. Su questo terreno Cida ha proposte da fare ed è pronta al confronto con la politica.



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